Gestes barrière, postillon e covidiot. Les mots de la Covid-19
Il professor Aurelio Principato*, uno dei massimi esperti di lingua francese già professore ordinario di Lingua e Traduzione Francese e di Storia della lingua francese in varie università, illustra alcune caratteristiche della lingua francese in questo momento legato all’esplosione della pandemia di Coronavirus. Intervista a cura della professoressa Irene Zanot, ricercatrice di Lingua e Traduzione Francese presso il Dipartimento di Studi Umanistici UniMc
Buongiorno Professore, grazie per aver accettato di rilasciare questa intervista dove ci potrà illustrare alcune caratteristiche della lingua francese in questo momento legato all’esplosione della pandemia di coronavirus. Un’esplosione che ha avuto immancabilmente un riflesso sugli usi linguistici, ad iniziare dalla stessa designazione della malattia, che altalena fra la sua corretta denominazione Covid-19 e il nome comune coronavirus, che risulta, se non erro, assai più diffuso nell’uso sia in Francia che in Italia. Anzitutto, volevo chiederle come può spiegare questa preferenza e perché in Francia si parla sia al maschile che al femminile del Covid-19.
Effettivamente anche io ho incontrato questa oscillazione, anche in italiano in misura minore, persino tra titolo di un articolo su “Le Monde” del 4 maggio, Comment le Covid-19 chamboule la recherche scientifique, e il link che rimandava a questo titolo che presentava Covid-19 al maschile, Comment la Covid-19 chamboule la recherche scientifique. Quello dell'oscillazione dei generi è un fenomeno comune, spesso non se ne conosce la ragione, ma in questo caso si può rintracciare risalendo molto a monte. Il primo fattore è che è stato dato un nome a un oggetto del tutto nuovo e sconosciuto, e questo è un fattore dei tre che interessano il fenomeno sia dal punto di vista generale e che da quello lessicale. Inizialmente, si è parlato di coronavirus, poi gli scienziati hanno spiegato che si tratta di un nome generico di tutta una categoria, forse di una morfologia di virus, e hanno aggiunto un aggettivo: il “nuovo” coronavirus. A questo punto, per identificare il virus o il fenomeno rispetto ai precedenti (la Sars eccetera) sono stati creati, con un po' di ritardo, due nomi propri: uno, COVID-19, per la malattia, e per il virus quello di SARS-CoV-2, quando si pensava che ci fosse una malattia identificabile che prendesse ai polmoni. In realtà, le malattie che provoca questo virus sono tante, comunque la prima denominazione generica è rimasta dominante. Andiamo avanti: il nome scientifico della malattia è più facile del nome scientifico del virus, SARS-CoV-2, ed entrato più facilmente nell'uso, anche pensando, con Covid-19, di designare il virus e non tanto la malattia. Poste queste tre premesse, veniamo al genere: COVID-19 nasce come sigla, “CO-rona VI-rus D-isease”, cioè malattia da coronavirus, esplosa nel 2019. Quindi, per determinare il genere dovrebbe contare il termine di supporto, che è “disease”, malattia. A questo punto, però, tre motivazioni diverse portano a esitare. La prima, è che per i termini inglesi il francese preferisce dare il genere maschile; per esempio, in francese si dice “le Brexit” per “la Brexit”, mentre in italiano in questo caso dovremmo avere facilmente il femminile. Ma se si pensa al significato, cioè “disease” come malattia, “maladie” e malattia sono femminili: il senso del termine attira verso il femminile. Ma poiché in realtà si dice Covid-19 pensando al nome del virus, “virus” è maschile. Quindi c’è di tutto per giustificare l’esitazione sulla base di una storia in questo caso facilmente ricostruibile.
Assolutamente, poi forse diventa anche una questione di gusto personale, alla fine…
Si, certo.
Passo a un altro aspetto che riguarda un'altra ondata di termini che oramai sono diventati di uso comune e che ci riporta invece alle operazioni che si sono rese necessarie per contenere combattere il virus. In Italia è tornato popolare un vocabolo che era nato nel Medioevo quale “quarantena”, affiancato dagli anglicismi lockdown e post-lockdown, che ha caratterizzato la fase 2. Abbiamo trovato anche il termine “isolamento”, più neutro e anche meno usato. Invece, è interessante che il francese abbiamo optato per due parole che in una certa misura potevano considerarsi desuete ossia confinement e déconfinement. Volevo chiederle qual è l'origine di queste parole e quali motivazioni potrebbero aver portato ad adottarle, e poi volevo chiedere cosa si può dire a proposito del termine quarantaine, che è anch'esso presente nel francese.
Dunque possiamo partire da confinement. A me piace confinement; piace anzitutto perché è più preciso, indica appunto i confini che devono impedire il contatto, il contagio. Il lockdown, invece, rinvia a una chiusura, che è uno degli effetti delle misure necessarie per rendere possibile l'assenza di contatto: è una sineddoche rispetto alla cosa più generale, cioè il “confinamento”, termine che infatti è stato usato anche in italiano. E poi è un termine adattabile, come nella frase “les personnes ayant partagé un espace confiné avec un patient Covid-positif”; si può anche declinare, adattare alle situazioni, mentre invece lockdown è rigido e ci si rinvia, come al solito, per pigrizia. In questo caso, la tendenza ufficiale francese a respingere gli xenismi mi sembra propizia. A parte questo, quello che è da notare nel fenomeno della pandemia sono due o tre dimensioni. La prima, la sua novità o carattere ignoto; e poi il fatto che sia un fenomeno globale, che interessa tutto il mondo. E’ una pandemia, e quindi questo comporta che, di fronte a un fatto comune in tutto il mondo, si adotti più o meno la stessa terminologia: non ci sono, in realtà, delle grandi differenze di uso e tra un paese e l'altro. Veniamo al termine quarantaine. Quarantaine è un vecchio termine che risale alla fine del medioevo, quando a Venezia si tenevano per quaranta giorni le navi fuori porto per evitare il contagio della peste, ed è diventato un termine internazionale; porta con sé una misura temporale, ossia quaranta giorni. C'è stato un tentativo in francese di adottare il termine quatorzaine, perché la quarantena in realtà per il coronavirus durerebbe quattordici giorni, anche se poi non è esattamente così; comunque, mi pare che quatorzaine poi sia scomparso. Al fenomeno della novità si aggiunge quello spaziale della globalizzazione che fa circolare gli stessi termini, mentre il terzo fattore è l'accelerazione dei tempi; un fattore temporale quindi. Pensiamo alla curva esponenziale del contagio; pensiamo al modo in cui si sono moltiplicate le pubblicazioni, i saggi, le modellizzazioni sul Covid-1. Questo, sul piano lessicale, ha portato a una proliferazione mai vista di termini tecnici che riguarda un fenomeno medico: oggi parliamo con disinvoltura di test sierologici, di tamponi, curve, asintomatico, mascherine FFP2, insomma abbiamo appreso realtà prima assolutamente sconosciute.
Le abbiamo apprese forse perché siamo stati costretti a viverle in maniera diretta ...
Questo fattore è un fattore molto importante verso la conoscenza di questa nuova realtà: c'è una curiosità interessata, determinata dalla paura, ma si vuole capire, si vuole cercare di essere tranquilli e dominare la paura. Così, si immagazzinano parole e concetti medici in misura varia. C'è anche chi si accontenta di sapere se si può uscire o se non può uscire di casa, ma in generale c'è fame di termini medici. C'è stata anche una negoziazione tra le esigenze del linguaggio scientifico e medico e questa necessità di diffusione, di divulgazione dei concetti: una creazione accelerata di termini che vengono a designare delle realtà precise. Prendiamo, per esempio, la distanziazione sociale: qualcuno dice che si è diffuso uniformemente “distanza sociale”, ma in realtà tratta di distanza fisica. La cosa si può discutere, può cominciare a investire anche i significati diversi che può avere il termine “sociale”, e in francese si è creata una coppia di termini, social e sociétal, per far fronte alla polisemia. Il termine “mascherine”: in partenza prendiamo il francese masque per “maschera”. Il francese non ha neanche la risorsa del diminutivo “mascherina”, che per lo meno già circoscrive, e quindi all’inizio nei comunicati c’era un po’ di imbarazzo per precisare di che maschere si trattasse. Per esempio, si è usato molto per un certo periodo masque anti-projection, mascherine chirurgiche, quelle che impediscono la proiezione; e qui arriviamo a un'altra parola, droplet. Mi pare che droplet, in francese, decisamente, non sia stato amato, e allora si è cercato di andare a pescare un termine molto vecchio, molto carino: postillon, che viene probabilmente dal “postiglione”, il cocchiere che non va tanto per il sottile, che sputacchia. Poi abbiamo gouttelette, goccioline, termine che ha il diminutivo, e le sigle, che designano delle cose che non si sapeva esattamente cosa fossero. EP, per esempio, équipement de protection individuelle, e quindi i “presidi”, per richiamare l'uso in italiano: prima del covid-19 non sapevo minimamente che "presidi" in medicina, negli ospedali, indicasse proprio questo, pensavo che si trattasse di qualcuno messo in sorveglianza davanti all'ospedale e che presidiasse! Quindi, c'è tutto il problema del trasferimento di un vocabolario comune alla sfera tecnica e della sua interpretazione. Per esempio, in italiano, il famoso caso dei congiunti, che nasce perché si vuole comunicare in maniera chiara e diretta di che cosa si tratta, e poi invece bisogna precisare esattamente fino a quale grado di parentela, etc. etc. Un esempio in francese e quello è del contact étroit, “contatto stretto”, che provo la necessità di spiegare: “un contact étroit efficace pour la transmission respiratoire signifie que l'expiration d'une personne peut atteindre la zone d'inhalation d'une autre”. Mi pare che la spiegazione sia ancora più confusa del termine contact étroit. Un altro esempio può essere quello che è stato commentato recentemente a proposito della mancanza delle mascherine, la pénurie. Il presidente Macron, a un certo punto, ha parlato del fatto che non si vuole andare “en rupture de masque”, e questa frase ha suscitato questo commento a doppio taglio: “si le terme rupture est suffisamment flou pour laisser place à interprétation, chacun pouvant placer la rupture où bon lui semble, le passage a largement fait réagir”. Anche in Francia c'è il problema delle mascherine, che sono insufficienti, e, dall'altra parte, c'è il problema dell'espressione, qui in mescolanza con il vocabolario economico perché essere “en rupture de stock” significa non avere le scorte sufficienti. Questo è uno dei tanti fenomeni di contaminazioni di nuovi sensi – e, a proposito, contamination è più usato che “contagio”.
La ringrazio molto, impariamo tantissime cose, anche molto divertenti e particolari. Aggiungo un'altra espressione che può colpire e per la quale manca un corrispettivo in italiano, ossia l'espressione gestes barrière, che è stata presente sia nel manifesto diffuso dal Ministère de solidarité e de la santé, e invece in italiano abbiamo trovato "misure di prevenzione", "regole" oppure "comportamenti da seguire" se prendiamo il corrispondente manifesto elaborato del nostro Ministero della Salute. Volevamo chiederle se si tratta di un neologismo oppure se l'espressione era già utilizzata magari in un contesto d'uso più ristretto.
Forse, più che di uso più ristretto, di uso più largo. Io l’ho trovato per esempio sul sito améli, che è il sito francese dove si prendono gli appuntamenti medici, si segue la propria salute, un sito che funziona molto bene. Il 6 dicembre 2019, quindi prima dello scoppio dell'epidemia, compare tra virgolette per invitare a dei comportamenti che possono evitare di ammalarsi: “des gestes simples de prévention adoptés au quotidien permettent de réduire la transmission des infections hivernales. Ces « gestes barrière » comme le lavage des mains, l’utilisation de mouchoir à usage unique, le port du masque jetable ou encore le fait de tousser ou d’éternuer dans son coude, une fois combinés, constituent un bouclier de protection: ils font barrage aux virus et contribuent à se protéger et protéger son entourage”.
Quindi il vocabolario della prevenzione e le regole di comportamento, compreso il modo di chiamarli gestes barrière, era già pronto, al contrario di quanto non fossero pronte le sale di rianimazione degli ospedali. E’ stato utilizzato dal ministero e dal Comune di Parigi a proposito delle persone che rispettano le misure di distanza sociale per spiegare se servono le mascherine di tessuto e, a proposito di mascherine, la cosa si estende, perché un'associazione francese, l’Association Française de normalisation AFNOR, il 27 marzo compila un capitolato per “les masques barrière”: dai “gestes barrière” si passa alle “masques barrière destinées à la population générale”. E’ comunque un fenomeno molto comune di uso aggettivale del sostantivo, quindi non ne esalterei la novità; non lo vedo tanto come neologismo, ma è un termine generale ed efficace.
Invece adesso le chiedo un'opinione su alcuni neologismi veri e propri che, in italiano così come in francese, risultano nella maggior parte dei casi legati alla nuova vita, ai nuovi riti che sono sorti in seguito all'adozione delle misure di prevenzione e di isolamento. A questo proposito, il giornale “Le Monde”, che lei ha già citato, ha raccolto una selezione di neologismi tramite un appello lanciato ai propri lettori, e in questa selezione per esempio compaiono termini come lundimanche, whatsapéro, télétravailleur e covidiot, insulto indirizzato a chi non rispettava le regole del confinamento, o anche a chi ne faceva un uso esagerato. Volevamo chiederle quali procedimenti sono all'opera in queste creazioni lessicali e se, secondo lei, sono tutte destinate alla scomparsa, oppure se alcune possono entrare nell'uso anche una volta passata la pandemia.
Come lei dice, sembrano termini molto legati alla circostanza attuale, e quindi presentano poche probabilità di sopravvivenza, in teoria, una volta che questa emergenza sarà passata. Tuttavia, non è detto. Sappiamo, nella storia delle parole, che per ritrovarne la spiegazione e l'origine si vanno a ripescare delle cose che non esistono più: pensiamo a quante parole del nostro vocabolario vengono fuori per esempio dall'abitudine della caccia antica, come la caccia alla volpe o con il falcone. Certo, alcuni di questi neologismi non è detto che non rimangano come la loro realtà: télétravailleur prospetta un futuro di lavoro da remoto. L’articolo de “Le Monde” elenca una serie di termini che sembrano effimeri più per spirito di curiosità che non per interesse linguistico, come covidiot, per cui viene data un’origine spagnola. Allora, quali sono i procedimenti di formazione e di questi neologismi, che forse non si possono chiamare neanche tali se non rimarranno, ma semplicemente delle creazioni lessicali? Quelli che lei ha indicato sono quei composti che i francesi chiamano mots-valises, e qui dovrei aprire una parentesi per un concetto cui tengo molto, perché in italiano i linguisti adottano la denominazione di “parole macedonia”. Si tratta di quelle parole che nascono dall'unione di due parole diverse che si saldano: lundimanche, whatsapéro, covidiot. Il termine di “parola macedonia” io lo respingo con tutte le mie forze perché l'aveva creato il linguista Migliorini nel dopoguerra per definire come idiota (non ancora come “covidiota”!) la creazione di questi termini; in realtà “macedonia” si riferisce a uno spezzettamento negativo della parola, e non dice niente. Mot-valise nasce dalla traduzione dell'inglese portmanteau word creato da Lewis Carroll per indicare questi giochi di creazione verbale, dove portmanteau designa la valigia che si portava a cavallo, la bisaccia, composta da due sacche pendente una da una parte una dall'altra, come queste parole. Quindi, si dovrebbe in italiano chiamarle “parole bisaccia”. Io preferisco pensare a quei mostri mitologici che venivano fuori dall'unione di una parte umana con una parte animale, quindi mi piacerebbe chiamarle parole centauro, parole sirena; ma quello che è interessante è la creatività. In quell'articolo de “Le Monde” accanto lundimanche, che si riferisce al fatto che quando si è nel confinamento tutti i giorni e sono uguali perché non si lavora comunque quindi il lunedì è come la domenica, trovo ancora più efficace interdi, senza la t finale, che rinvia contemporaneamente a “interdetto”, cioè proibito, e a inter dies: appunto, tutti i giorni sono uguali fra loro. E pure nella foto in testa all'articolo questa creatività si rivela nel lenzuolo esposto al balcone dove si fa riferimento a temps-dresse, scritto come “temps”, “tempo”, e “dresse”, quindi “quello che succede nei tempi di confinamento”, con un richiamo molto simpatico alla tenerezza. Un’esplosione di creatività nel vocabolario che abbiamo constatato anche in altri settori: questo è uno dei risvolti positivi e di questa tragedia che ha colpito.
E non poteva infatti mancare anche una reazione che sicuramente è tipica del temperamento francese: mi riferisco alla reazione contro l'irruzione massiccia sulla scena mediatica di un vocabolario medico che è costituito essenzialmente da anglicismi connessi a loro volta nozioni importate dal mondo anglosassone. Abbiamo visto che la Commission d’enrichissement de la langue française ha proposto di sostituire questi termini con degli equivalenti francesi. Ad esempio per copingviene proposta una soluzione “di una efficace semplicità” quale il composto faire-face, mentre per altri vocaboli si dischiude tutto un ventaglio di alternative, con cluster che dovrà tradursi come foyer oppure grappe o groupe a seconda dell’uso, e tracking che prevede la scelta fra géolocalisation, traçage e infine reconstitution de parcours qualora si parli di back tracking. Volevamo chiederle a quali criteri risponde questo processo di francesizzazione e se non c'è il rischio che questo stesso processo possa poi rivelarsi poco pratico.
Quest'ultima paura la considero limitata da quella che ho indicato prima come la natura globalizzata del fenomeno, che per una volta non determina caratterizzazioni molto nazionali del vocabolario. Tuttavia vengono create queste commissioni apposite per il controllo dell'ingresso in francese di termini stranieri, in particolare inglesi: la tendenza è particolarmente accentuata in Francia al rifiuto degli xenismi, tendenza che poi non corrisponde all'uso reale. Bisogna vedere quello che succede concretamente. All'inizio io mi ero per esempio meravigliato del fatto di vedere comparire più spesso cluster in francese piuttosto che foyer; in Italia si parlava di focolai e meno di cluster, però questo termine necessitava di una spiegazione. Si era in una fase iniziale in cui, di fronte a qualcosa di sconosciuto come l'epidemia che si preparava, il termine inglese veniva a prevalere rispetto a quello più comprensibile e generico francese. Adesso mi sembra che l’uso di cluster si sia molto ridotto, e così penso che è per molti dei termini inglesi che ha citato perché è chiaro che la ricerca medica internazionale è supportata e veicolata dall'inglese. Gli articoli, le scoperte, il risultato della collaborazione degli scienziati sul covid-19 sono in inglese, quindi è assolutamente naturale che dall'inglese si parta, non c'è dubbio. Però quale è la controtendenza? Quella che chiamavo prima come bisogno di comprensione da parte del pubblico. La diffusione di anglicismi, in italiano come anche in francese e in altre lingue, si fa normalmente non perché siano prestiti di necessità (esistono le corrispondenti parole in italiano come nelle altre lingue) ma per pigrizia, per inerzia, quando non per snobismo: l'uso del termine inglese mira ad ostentare una propria competenza che in realtà non esiste, ma comunque si dice il termine in inglese perché fa bello. Qui, in questo caso, non c’è questa funzione; qui chi ascolta vuole sapere di che si tratta. Ed ecco che è meglio parlare di “localizzazione”, “géolocalisation”, di “traçage”. Quindi penso che questo sia un caso molto diverso dal comune rapporto tra inglese e altre lingue. Possiamo tornare al caso del lockdown per vedere come, una volta utilizzata, la parola designa in modo univoco quello che è stato e da cui stiamo uscendo. Ma essa è perfettamente comprensibile perché rinvia alle nostre abitudini: stare in casa, uscire di casa, alla chiusura o apertura dei negozi, ristoranti, eccetera eccetera. Non ha a che fare con la materia medica specifica, che quella deve essere spiegata nei termini della lingua nazionale. Il medico non si mette lì a usare a un paziente italiano o francese termini inglesi che risulterebbero come il “latinorum” di Don Abbondio.
Io la ringrazio tantissimo professore per questa per questa spiegazione ricca dettagliata e anche appassionante, oltre che divertente. Appassionante anche da tanti punti di vista collaterali: quello che sta succedendo è nuovo, e consente di riflettere molto su tante cose che si scoprono e che non conoscevamo. Quindi grazie dell’occasione di parlarne.
* Aurelio PRINCIPATO
Nato a Palermo nel 1947, già allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha insegnato la Storia della lingua francese presso le università di Pavia e IULM di Milano. In quest’ultima, oltre che a Pisa e Palermo, ha insegnato anche Lingua e letteratura francese. Ha terminato la sua carriera presso l’Università Roma Tre, insegnando Lingua e traduzione francese. Ha pubblicato in Italia e in Francia diversi studi di linguistica e di letteratura francese, lavorando in contatto con gli specialisti attivi presso la Sorbona e l’École Normale Supérieure di Parigi. Negli ultimi tempi si è dedicato principalmente all’edizione delle opere di Chateaubriand presso l’editore Champion. È autore di una Breve storia della lingua francese (Roma, Carocci, 2000) e, con F. P. A. Madonia, d’una Grammatica della lingua francese (Roma, Carocci, 2011).