Home Primo piano Fragilità GLOBALE. La via dell'UMANESIMO fra natura e tecnologia

Fragilità GLOBALE. La via dell'UMANESIMO fra natura e tecnologia

Lectio magistralis, tenuta dal Prof. Luigi ALICI in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico il 15 ottobre 2020, alla presenza del Presidente della Repubblica.

«I due miei allievi preferiti, qual buon vento, entrate!».

Il vecchio professore accolse con cordiale giovialità un giovane alto e ben vestito, che sembrava ancora un ragazzo, e una figura femminile, più minuta e dimessa, che sembrava forse troppo adulta.

«Prof, come sta? Disturbiamo? Siamo venuti per una visita, dopo un periodo così lungo di chiusura».

«È il mondo intero che è stato ferito, non solo io». Il solito sorriso, ironico e aperto, li mise subito a proprio agio.

«I nomi d'arte che vi avevo affibbiato funzionano sempre? Posso ancora chiamarvi così, Aurora e Leonardo? Nomen omen. Sedete. Pandemia e Antropocene, ecco le due parole che mi hanno fatto compagnia. L’essere umano è diventato agente geologico dominante, il suo impatto sul pianeta sovrasta i fenomeni naturali. Ed ecco la sorpresa del Covid-19. Una sorpresa non del tutto inattesa…».

«Ma prof, non si metterà anche lei a fare catastrofismo». Le parole di Leonardo, sempre immediate e dirette, furono interrotte da Aurora: «Dài, non puoi negare un nesso tra i due fenomeni».

Il vecchio professore cambiò gli occhiali, mentre li guardava divertito: «Ecco, le posizioni in campo, come sempre, sono chiare… Nell’ottica dell’Antropocene – riprese – anche la fragilità può essere globale, non solo il potere: oltre alle singole parti, si può ammalare anche l’intero».

«Ma prof, si tratta di fenomeni ciclici, non dica così», azzardò Leonardo.

«Certo, anche i virus appartengono alla storia evolutiva e da sempre dialogano con il nostro patrimonio genetico. Ma un conto è avere a che fare con un insetto pericoloso quando si fa una passeggiata, un conto è averlo dentro un bolide lanciato a velocità supersonica».

«Che vuol dire fragilità globale?», domandò Aurora.

«Globale non per addizione, ma per intersezione. In questi mesi abbiamo sentito parlare continuamente di polmonite interstiziale, un processo infiammatorio del tessuto connettivo che riveste gli alveoli polmonari, luoghi di scambi gassosi tra l’organismo e l’ambiente, grazie ai quali è possibile la respirazione».

Leonardo dovette ammettere: «Prof, non la seguiamo».

«Voglio dire che quando è arrivato questo coronavirus, noi eravamo già diversamente malati». Il professore sillabò le ultime parole, mentre il tono della voce si era fatto grave: «Ci sono altre patologie interstiziali, di ordine sociale, culturale e spirituale, oltre quella biologica. Fra il contagio virale della pandemia e la proliferazione globale di un individualismo possessivo ci sono analogie inquietanti: anche l’individualismo sembra aver subìto una mutazione genetica, infettando gli alveoli dove avviene lo scambio tra pubblico e privato. Il contagio è la smentita più clamorosa di ogni forma di atomismo sociale. Non è possibile “io” senza dire “noi”. C’è voluto un virus per ricordarci questa verità elementare. Dopo l’ultimo dopoguerra un ritrovato spirito solidale aveva elaborato nuove forme di integrazione a livello internazionale, antidoti preziosi ai nazionalismi che ci avevano regalato due conflitti mondiali. Ma quella tensione è andata scemando. Il progresso tecnologico si è insediato in uno spazio pubblico desertificato da un sovranismo dell’ego che sta cannibalizzando in modo selvaggio i gangli della vita familiare e civile, imprenditoriale e politica. In questo scenario la crisi finanziaria e poi quella epidemiologica ci hanno aggredito mentre eravamo intenti a erigere muri anacronistici fra i popoli e persino all’interno della società della conoscenza. Una tendenza famelica a recintare tutto: confini geopolitici, campi profughi, risorse naturali, OGM, sequenze di DNA, big data, pezzi di sapere, forse persino vaccini… Lo spazio pubblico, che garantisce la qualità umana e civile delle relazioni tra le persone, non è comparabile a una landa desolata, preda di sciacalli e bestie feroci; il primo è il luogo della partecipazione, il secondo il luogo del contagio. Cicerone, e con lui Agostino, ci hanno insegnato che non si dà res publica senza res populi. Senza una res non c’è populus, senza populus con c’è sfera pubblica. Siamo in grado di spiegare oggi, in poche parole, quale sia la res del nostro popolo?».

Lo sguardo di Aurora si era acceso, ma il professore la fissò scuotendo la testa: «Aurora, non sto portando acqua al tuo mulino. L’antropocentrismo dominativo che voi denunciate chiede giustamente di fare passi indietro radicali. Tuttavia, la differenza dell’essere umano si manifesta sempre nella capacità di attraversare le frontiere. Ogni epoca è disegnata dalle frontiere, esterne e interne, che si sogna di oltrepassare. Il salto evolutivo e lo sconfinamento possono essere un’eccezione catastrofica a livello biologico, mentre per gli umani sono la misura della civiltà e la regola della scienza».

Leonardo si sentì rimesso in gioco: «Sono d’accordo, prof, andare avanti è una legge non solo della tecnologia ma anche della natura».

«Andare avanti – riprese con un sospiro il professore –, ma che vorrà dire? Correre a perdifiato può essere il modo più frenetico di stare fermi. Oggi si muove tutto, eppure tutto – la società, la politica, l'economia, la scuola, l’università – sembra fermo; proprio come il colibrì, che consuma moltissime energie per rimanere in una sospensione immobile. Stiamo entrando nel più radicale cambiamento d’epoca degli ultimi secoli, senza un progetto, senza un disegno, forse senza nemmeno un desiderio. Viviamo, in modo allegramente spensierato, un’altalena tra passato e futuro».

«Bauman parla di retrotopia».

«È vero, Aurora. Il suo messaggio è inquietante: voglia viscerale di utopie capovolte, un arcipelago di egoismi regressivi in una società scucita. Nello stesso tempo, dilaga una pubblicistica intenta a scrivere una “storia del futuro”. Si sta realizzando una insospettata convergenza fra gli atteggiamenti decostruttivi, tipici del postmoderno, e il riduzionismo scientifico – quello duro –, dalle neuroscienze alle tecnologie convergenti. La celebrazione dell’informe autorizza le più spericolate avventure della libertà, nobilitate dal sogno transumanista ma di fatto cavalcate astutamente dal consumismo più becero».

«Ma non sarei così negativo, prof, – intervenne Leonardo – con le opportunità crescono anche gli spazi di libertà…».

Il vecchio professore scosse la testa: «Cari ragazzi, ma che vi ho insegnato! Una scelta non è buona solo perché è libera, e non è cattiva solo perché ci limita: si può aderire liberamente a un gruppo terroristico, si può riconoscere un debito vincolante nei confronti di relazioni che non abbiamo scelto. È ora di demistificare il mito della libertà “a prescindere”, responsabile di grandi progressi ma anche di tragiche perversioni. La libertà è una medaglia: una faccia si chiama autonomia, l’altra responsabilità. La crescita della prima non può avvenire a scapito della seconda: in questo modo è la libertà stessa a implodere, e con essa anche l’autonomia. È ora di sollevare il velo sulle nefandezze dissimulate dietro l’appello strumentale alla libertà, dalla finanza speculativa fino alle forme più ottuse di complottismo e di negazionismo».

Nella stanza era calato un silenzio profondo, che affascinava e intimoriva i due allievi. Alla fine, il vecchio professore scandì sommessamente:

«Cara Aurora, caro Leonardo, la mia generazione ha fallito. Non possiamo più nasconderci dietro la bandiera della libertà. Abbiamo celebrato la democrazia e ci ritroviamo ostaggio di poteri invisibili, che rischiano di trasformare i parlamenti in luoghi folcloristici; eravamo convinti che la stessa marea avrebbe fatto risalire tutte le barche, ma dietro la retorica dell’uguaglianza si profila un panorama di disuguaglianze indecenti, spudoratamente sbandierate da miliardari narcisisti e viziati; il mito di una tecnologia e di una economia che promettono di tenere sempre tutto sotto controllo annega miseramente in una rincorsa affannata contro le emergenze. Oggi poi raschiamo il fondo del barile, scaricando tutte le tensioni irrisolte in un conflitto strisciante fra generazioni, che la pandemia ha inasprito lasciandoci orfani di un’intera generazione di anziani. Ma non vedete che sono ormai i ragazzi, ragazzi giovanissimi, a sollevare a livello planetario – dall’Europa al nord Africa, dagli Stati Uniti a Hong Kong – le questioni più scottanti, che da anni facciamo finta di non vedere?».

Il tono della voce si era fatto aspro e vibrante.

Leonardo intervenne: «Prof, non se la prenda, guardiamo avanti. Io sono affascinato dal cambio di passo introdotto dalla robotica. Il robot ormai dialoga con noi».

Il vecchio professore ribatté prontamente: «Ogni macchina intelligente sta nel perimetro di funzionalità operativa assegnatogli dal programmatore, inclusa una relativa possibilità di sconfinare. Resta sempre una dipendenza strumentale. La libertà, che ci fa così diversi dal resto del mondo, ci appartiene, ma non è trasferibile. Chi s’illude di dare la libertà a un altro – umano o non umano – in realtà gli concede solo margini più o meno ampi di autonomia ipotecata, condannandosi, nello stesso tempo, ad avere bisogno di un servo per sentirsi padrone. Non trasformiamo l’automazione del mondo nella protesi diabolica della nostra libido dominandi. L’imperialismo macchinico sarebbe la peggiore delle dittature: se deleghiamo le decisioni che contano a una macchina che gestisce tutti i megadati su un problema – medico, finanziario, giudiziario, persino politico – quale spazio resta per pratiche corresponsabili di discernimento, di presa in carico dei problemi, di cooperazione deliberativa?».

«Dietro il dilemma tra tecnocentrismo e biocentrismo – s’inserì Aurora –, si cela un’antitesi profonda tra riduzionismo e olismo: se crediamo che l’intero equivalga alla somma delle parti, potremo smontare la natura come un giocattolo».

«Voi – replicò Leonardo – non avete un’idea chiara di natura. Screditate come “ecologia superficiale” chi fa i conti con la tecnologia e avete ridotto la deep echology a un fondamentalismo mistico. E poi ci sono le etiche animaliste, dei diritti degli animali o di liberazione animale. Mondi che non dialogano».

Aurora si sentì ferita: «Non banalizzare così. Il vero problema è riconoscere alla biosfera un valore intrinseco. Antropocene è il rifiuto della storia biologica, che vorrebbe fare della vita un prodotto non più dell’evoluzione ma della tecnologia. Preston parla di era sintetica, Plastocene: fabbricazione molecolare, organismi artificiali, resurrezione di specie estinte, riprogettazione del mondo. Kurzweil è convinto che la nascita di una singolarità tecnologica sia ormai alle porte. L’indipendenza non è più una proprietà fondamentale della natura. Susan Hockfield, prima donna neurobiologa Presidente del MIT, ha scritto L’età delle macchine viventi: grazie alla biomimetica, frutto del lavoro congiunto di biologi e ingegneri, un virus batteriofago si può trasformare in un elettrodo. La cosiddetta nanotecnologia umida non serve forse a costruire macchine viventi?».

«Ma di che cosa avete paura?». Leonardo si divertiva a provocare.

«Degli assoluti terrestri fabbricati con le nostre mani! Bateson ci ha insegnato che la crescita di flessibilità, cioè di opportunità di cambiamento, della nostra civiltà comporta un uso massiccio di energia e altre risorse, a scapito dell’ambiente. Il dominio dei manufatti sta diventando patologico. Eriksen parla di sviluppo fuori controllo, se è vero che dal 1975 al 2012 il consumo energetico mondiale è raddoppiato e che tra il 2000 e il 2012 il traffico aereo globale è cresciuto del 60%. Nel 2050 la popolazione mondiale potrebbe sfiorare i 10 miliardi e circa il 60% potrebbe accalcarsi in megalopoli che rubano spazio alla biodiversità e all’agricoltura. Il riscaldamento globale è l’effetto macroscopico di questa accelerazione. Solo una minoranza di privilegiati potrà continuare a vivere così, sopra una montagna di rifiuti: secondo Gosh, questa è la “grande cecità”».

Le parole di Aurora non scalfivano l’entusiasmo di Leonardo: «Chi guarda avanti, da Harari a Rees, è convinto che la grande sfida sarà quella di un’intelligenza collettiva inorganica, capace di produrre algoritmi non coscienti, in grado di conoscerci meglio di quanto noi conosciamo noi stessi. La possibilità di manipolare la materia a livello di atomi e molecole sta portando a un radicale rifacimento del mondo fisico, con potenzialità enormi anche nella elaborazione di informazioni digitali».

«Chi pagherà il conto? – ribattè Aurora con voce stizzita – persino il vostro Drexler aveva ipotizzato una “ecofagia globale incontrollabile” ad opera di nanorobot autoreplicanti. Un po’ di sana “euristica della paura” no, vero?».

Ma Leonardo era un fiume in piena: «Dopo tanti dibattiti astratti sull’intelligenza artificiale, c’è stato un salto quantico nella computazione intelligente per la robotica umanoide. Non ci saranno capacità umane – emozionali e cognitive – che le macchine non potranno emulare. L’automazione sarà il cuore della società della conoscenza, diventerà insostituibile nelle pratiche di cura, capace di interloquire con il mondo degli affetti. I risultati più importanti già si colgono a livello infrastrutturale, cognitivo-computazionale, perfino istituzionale, ridisegnando regole e protocolli. Automazione equivale a una nuova ontogenesi, a un altro modo di generarsi e crescere del mondo. Il virtuale non è un mondo meno reale, ma più reale».

Lo sguardo di Aurora si era fatto severo: «Oltre una certa soglia, la tecnologia non è più uno strumento. Non si può invocare la neutralità dinanzi all’uso irrefrenabile di petrolio, gas e carbone in un pianeta surriscaldato, o di fronte all’imperialismo dei big data, la nuova materia prima dell’era digitale, che sta diventando la madre di tutti i futuri conflitti».

Dopo un lungo sospiro, il vecchio professore si alzò e cominciò a passeggiare per la stanza:

«Cari ragazzi, voi appartenete a due tribù autoreferenziali, con le loro fobie e i loro tic, paghe di esibire qualche trofeo e lucrare sulle criticità della tribù rivale. Hadot direbbe: o il paradigma dominativo di Prometeo o quello estetico di Orfeo. Il biocentrismo insegna un approccio olistico agli ecosistemi di cui ricorda la vulnerabilità, ma è indifferente dinanzi al fatto che in natura il pesce grande mangia sempre il pesce piccolo. La tecnoscienza promette di darci quello che desideriamo, ma non può dirci che cosa desiderare. Dobbiamo andare oltre. Non possiamo pensare solo in termini di potere: cedere potere alla natura o alla tecnologia; uno vorrebbe più koala, l’altro più robot. La libertà può essere svenduta sia abbassando troppo la testa, sia alzando troppo le mani».

Il tempo era come sospeso. Una sintonia emozionante con il cuore del mondo, oltre il commercio del quotidiano.

Il professore riprese: «Il nostro mondo abbraccia galassie ed ecosistemi, industrie e parlamenti, piazze e campanili, biosfera e tecnosfera; dinanzi a tale complessità non possiamo consentire all’homo faber di tenerne in pugno alcuni frammenti per le proprie voglie. Ha ragione Borges: “La terra è un paradiso. L'inferno è non accorgersene”. Anche papa Francesco, da Laudato si’ a Fratelli tutti, invita a tenere insieme questione ambientale e questione sociale, in nome di una cura fraterna della casa comune.

Il mondo è uno solo, non ne abbiamo uno di riserva; la famiglia umana è una sola; c’è un unico crocevia dei saperi e un unico bene comune. Ci si ammala insieme e si guarisce insieme. Ricordate Einstein: “La natura non è divisa in dipartimenti, come lo sono invece le università”. E invece abbiamo fatto a pezzi non solo il mondo e il sapere, ma persino l’etica! L’etica ecologica è severamente normativa, mentre altre etiche sono ormai arrese al soggettivismo delle preferenze. I nostri ragazzi sono contro gli OGM e nello stesso tempo a favore dell’utero in affitto: in un caso la natura sarebbe inviolabile, nell’altro caso no.

Non possiamo affrontare problemi globali con approcci settoriali. Per abbattere i recinti del sapere, che impediscono una reale democratizzazione della conoscenza, c’è bisogno di allargare gli orizzonti dell’umanesimo. Dobbiamo lasciarci stupire dall’intero: contemplare la bellezza, articolare le differenze in modo armonico e plurale. Non confondiamo l’unità del sapere con il pensiero unico. Nella prospettiva di un Welfare cognitivo, la politica deve promuovere il bene comune della conoscenza e l’istituzione universitaria favorire una condivisione partecipata dei saperi. Purtroppo anche l’università è vittima di un surriscaldamento; come no, un surriscaldamento burocratico, che la sta paralizzando».

«Professore, e allora?». Aurora aveva uno sguardo smarrito.

«Ci aspetta un grande lavoro. Non dobbiamo soltanto depurare l’umanesimo da forme ideologiche di antropocentrismo o biocentrismo; dobbiamo anche bandire ogni retorica esortativa e vagamente moralistica. L’umanesimo non è uno slogan per coprire le nostre pigrizie o per sdoganare le peggiori pulsioni narcisistiche. Mi pare che Karl Kraus abbia detto: “La libertà di pensiero ce l’abbiamo, ora ci vorrebbe il pensiero”. Non lasciatevi intrappolare nei vostri opposti estremismi: tra l’euforia transumanista e il catastrofismo ecologista potrebbe addirittura realizzarsi una involontaria alleanza».

«Prof, ma cosa dice?». Leonardo e Aurora insorsero quasi all’unisono, lui incredulo, lei scandalizzata.

«Pensateci bene. Quando si estremizza una deriva ideologica, il punto di approdo può essere lo stesso: sciogliere l’umano nell’anonimato della grande rete – la rete del mondo digitale o della comunità biotica. In entrambi i casi, all’orizzonte ci sarebbe un megasistema impersonale: o quello che promette di ridurre il sapere ad algoritmi gestiti da un’intelligenza artificiale centralizzata, oppure quello che annega ogni individualità nell’equilibrio omeostatico della vita.

Ecco il compito dell’università: allungare e allargare, non accorciare o restringere la via dell’umanesimo. Una via aperta e generativa, capace di guardare oltre l’antinomia di naturale e digitale, tenendo insieme la radicalità della ricerca e la passione degli orizzonti aperti, sul filo di un equilibrio creativo tra autonomia personale e responsabilità pubbliche. L’“umanesimo che innova” può essere un antidoto potente alle patologie interstiziali che si annidano nelle articolazioni profonde dove si tesse la trama di scienza e saggezza, fragilità e libertà, pubblico e privato».

Gli sguardi di Aurora e Leonardo s’incrociarono, dopo aver vagato per la stanza, dove regnava il solito disordine creativo e il vecchio computer era quasi sommerso da pile di libri.

«Professore, si è fatto tardi, siamo tanto contenti di questo incontro».

Lui fece finta di non sentire. «Siamo fragili, fragili e preziosi, per questo affidati gli uni nelle mani degli altri. Mentre devastava il panorama sociale, il Covid-19 ha messo a nudo molte altre fragilità, alle quali dobbiamo dare un nome. Non svuotiamo ulteriormente il paniere pubblico dei beni condivisi, dove la salute non deve occupare l’ultimo posto. Senza illuderci che un esserino circa 600 volte più piccolo del diametro di un nostro capello possa risolverci il problema. La crisi pandemica radicalizza quello che siamo: l’altruismo diventa eroico, l’opportunismo spudorato; la responsabilità potrebbe tornare al centro della scena pubblica, ma l’individualismo potrebbe essere rafforzato da nuove pulsioni tribali e corporative».

Si alzò di malavoglia, e cominciò lentamente ad accompagnarli verso la porta.

«Ricordate, le nostre responsabilità sono irrinunciabili e indelegabili. Jonas ha ragione: chi può scegliere, deve rispondere. In un’epoca di emozioni corte, di rapporti corti, di politiche di corto respiro, a noi tocca allungare gli orizzonti della responsabilità, fino alle future generazioni, al futuro della vita sulla terra. Responsabilità della cura, del bene comune, della pace: ecco la via da percorrere. Siamo ospiti, dobbiamo essere ospitali; le meraviglie del sapere non possono assecondare i deliri del potere. L’unica alternativa al contagio globale degli egoismi, ben peggiori dei virus, è il contagio culturale e spirituale che appartiene all’ordine generativo della dedizione disinteressata: non do ut des, ma do ut sis. Il bene non è un evento solitario, la forma propria del vivere è vivere insieme partecipando al bene che accomuna».

Al di sopra della mascherina il suo sguardo era intenso e penetrante.

«Per dare una forma cosmica e ospitale al nostro futuro, dobbiamo preferire la profondità alla superficie, anteporre la cooperazione alla competizione, aprire le risposte piccole alle domande grandi. Dentro, insieme, oltre: ecco tre avverbi che possono accompagnarci sulla via dell’umanesimo. Vi lascio con questa piccola consegna».

Un accenno imbarazzato e commosso di abbraccio a distanza.

«Dovete andare, grazie della visita. Mi raccomando, non cercate il successo, cercate la verità. Ricordatevi di Seneca: “Non c'è niente di più vergognoso di una filosofia che va in cerca di applausi”».

Li salutò con un senso di viva soddisfazione e una punta di tristezza. Continuò a osservarli dalla finestra, mentre salivano in auto, parlando animatamente.

Poi levò lo sguardo. Il pomeriggio stava rapidamente declinando, una luce nuova trascolorava oltre il morbido altalenare delle colline, fino al profilo distinto dei monti azzurri, in bilico tra il freddo della notte e una nostalgia di primavera.

Lo attraversò un brivido leggero, mentre affioravano alla mente i versi mai dimenticati del poeta:

Et iam summa procul villarum culmina fumant,

Maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

Macerata, Università, 15 ottobre 2020                                                                                                                                                                                                            LUIGI ALICI       


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