Mauro PERONI, Felicità POSSIBILE. Esercizi filosofici su SOFFERENZA, DESIDERIO e TEMPO, Petite Plaisance, Pistoia 2020
Mauro Peroni affronta il tema della felicità in maniera assai differente rispetto ad altre letture, come ad esempio quella socratica ed heideggeriana. Mentre, infatti, tali autori fanno della cura l’oggetto della trattazione, Peroni la considera come stile, piuttosto che come oggetto. Egli, inoltre, prende parzialmente le distanze dal classico tema dell’eudaimonia ed indaga la felicità anche attraverso discipline quali la sociologia e la psicologia, non limitandosi ad uno sguardo di stampo puramente filosofico. La felicità che viene ricercata, inoltre, costituisce il tentativo di raggiungere un’esistenza piena, e non soltanto la soddisfazione di uno stato emotivo transitorio.
Il primo capitolo, dal titolo «Sofferenza e trasformazione», rappresenta il nodo gordiano del problema della ricerca della felicità a partire dal suo opposto, l’infelicità. Ecco perché l’Autore ritiene utile partire da un esame della società contemporanea, in cui la depressione risulta essere una malattia collettiva e simultaneamente uno status costante della società in cui l’individuo si identifica. Perciò la depressione si configura come una mancanza di qualcosa, come una patologia in cui l’individuo non risponde più ad un sistema di virtù collettivamente condiviso. Non ci troviamo, infatti, più di fronte all’idea aristotelica di comunità; al contrario la realtà vigente è quella individualistica, in cui l’individuo è colui che decide ciò che gli manca per essere felice e, in questo modo, diventa l’artefice della propria depressione (che corrisponde alla mancata autorealizzazione). Peroni afferma che «per cogliere appieno la portata sociale e culturale di tale questione, il fenomeno sommerso della depressione va considerato all’interno del più ampio spettro problematico in cui l’io contemporaneo è coinvolto e che può essere condensato nella definizione di individualismo illimitato» (p. 17). Per completare il quadro in cui si alimenta tale fenomeno, bisogna citare anche la dittatura del mercato del lavoro, che si affianca all’insufficienza emotiva di cui ogni individuo diviene artefice: il soggetto viene forzato a desiderare in modo illimitato e così il desiderio, privo di peras, risulta essere il punto di origine della depressione umana. In virtù di questa sua natura, inoltre, la depressione diventa a tal punto interiorizzata da non essere possibile sconfiggerla.
A questo proposito l’Autore dichiara: «si è visto che oggi il ferimento ed il fallimento delle aspirazioni di vita originano dalle stesse dinamiche sociali che inducono tali aspirazioni, pungolando i soggetti a prodursi in un vitalismo drogato» (p. 27). Perciò la depressione costituisce un vero e proprio arcipelago in cui viene relegato il dolore dell’Io, in cui il soggetto sotterra la propria coscienza. Esorcizzando il dolore, viene persa la sua possibile funzione paideutica e così risulta impossibile il superamento della soglia depressiva. La problematica patologica invece viene affrontata da Jung, secondo cui «l’individuazione è un movimento che si offre da sé stesso, naturalmente, ed allo stesso tempo rappresenta un compito, arduo e dai risultati non scontati, perché implica un patire, una passione dell’Io» (p. 43). Così Jung ricorre al concetto di individuazione inquadrandolo come una ricerca per la realizzazione delle potenzialità dell’individuo. Il Sé deve essere colto nella sua dinamicità e non in quella statica visione, destinata alla necrosi, in cui lo relega la psicanalisi di stampo freudiano. Perciò la ricerca della felicità risulta essere una ricerca verso e dentro il Sé, una ricerca dell’Io e della propria identità, una discesa nell’inconscio umano, una ricerca che necessariamente procede attraverso il dolore e lo affronta risolvendolo e potenziando le possibilità dell’Io.
In tal senso il Sé è in continua trasformazione e tale dinamica mutevole deve essere compresa in una forma fluida, in modo tale da poter sconfiggere l’immobilismo della depressione che l’umanità sta affrontando. Successivamente Peroni esamina il nesso tra il desiderio e la vita felice, indagando le motivazioni che sono a fondamento del desiderio. Infatti, alla base dell’agire umano c’è la voglia stessa di vivere, la quale non si riduce alla semplice sopravvivenza fisica del corpo. Proprio per queste ragioni, il desiderio pone la persona all’interno di una molteplicità di scelte.
Inoltre bisogna necessariamente distinguere il desiderio dalla vita felice, poiché se il primo risulta essere infinito, al contrario la vita felice riguarda la nostra finitezza. Il sinologo Francois Jullien definisce la felicità un flusso, perciò un’idea totalmente differente dalla ricerca occidentale dell’autorealizzazione, poiché si perde nel pensiero orientale l’idea e la concretezza dell’Io.
Nella terza sezione viene costruita una traccia di stampo genealogico sul tema della felicità e del desiderio, e viene così affrontato il problema del ritmo, il quale viene definito da Platone come una forma di movimento che il corpo compie durante la danza. In maniera diversa la pensa Bachelard, per cui il ritmo rappresenta il basilare modello di sviluppo della vita, poiché è la radice della dinamica psichica e vitale di ogni essere umano.
L’ultima sezione, intitolata «Pensare bene per agire bene: una proposta educativa», mira a ripercorrere e, al tempo stesso, a concludere il percorso inaugurato nei capitoli precedenti. L’Autore afferma che tale proposta si colloca in uno specifico orizzonte culturale: quello della filosofia pratica di stampo greco. Perciò l’esigenza è quella di educare i ragazzi all’esercizio del kairos aristotelico, inquadrando la ricerca del sé in una specifica temporalità.
Il percorso di Mauro Peroni si declina all’interno di un panorama piuttosto variegato di esemplificazioni e così la stigmatizzazione del desiderio è denotata dalla visione dello stesso nella forma di una ricerca illimitata per un essere limitato come l’uomo. La felicità non deve essere considerata come un traguardo della nostra esistenza, visto che si deve mirare a vivere felicemente e non a raggiungere la felicità. Tale processo può essere accolto soltanto dimenticando le dinamiche capitaliste del desiderio, in cui il desiderio diventa illimitato, poiché gli stessi oggetti del desiderio risultano infiniti. Pertanto, in conclusione, si può dire che l’unica modalità per rimuovere l’infelicità umana e il fenomeno della depressione è la sostituzione degli infiniti oggetti del desiderio con una vita piena, in cui lo scopo da raggiungere è la vita stessa.