MARINELLI, Che cos'è la MEDICINA NARRATIVA
A oltre un anno dall’uscita del Dizionario di Medicina Narrativa. Parole e pratiche, Massimiliano Marinelli, curatore di quell’impresa scientifica ed editoriale, torna sulla Medicina Narrativa con un volume agile, di piacevole lettura, proponendo un percorso organico che muove dai fondamenti e le anticipazioni della Medicina Narrativa al suo utilizzo corrente, fino alle buone pratiche da replicare e diffondere. L’autore insegna Medicina Narrativa presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Politecnica delle Marche. Dirige il Centro Studi della Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN). L’intento del testo è fornire ai professionisti, ai cittadini interessati, ai pazienti uno strumento che sia capace di fornire “una visione più profonda della cura” (p. 9). Un’impresa che si può a buon diritto definire divulgativa, ma anche una testimonianza dello scarto che oggi separa certe pratiche mediche dalla loro originaria vocazione alla cura. L’autore restituisce molto bene le distorsioni etico-relazionali che il ricorso alle nuove tecnologie ha solo velocizzato e reso più evidenti: la dilagante logica prestazionale; l’accesso a una mole sempre più ampia, ma non automaticamente più accurata, di informazioni da parte del paziente, che lo rende in grado di contrattare cure e rimedi; il ripiegamento difensivo del medico, che è sempre più spesso invitato a evitare situazioni conflittuali nella comunicazione e nel rapporto con il paziente; il tempo della relazione eroso dalla produttività che s’insinua anche in territori prima facie lontani da ogni possibile quantificazione.
L’intento dell’autore e la sua posizione nei confronti della medicina tradizionale sono chiari fin dall’introduzione: la Medicina Narrativa non deve né può porsi in alternativa al paradigma tecno-scientifico, né può essere considerata un suo mero – e, a ben vedere, innocuo – correttivo. Restituire la medicina alla sua dimensione umana, infatti, non significa negare la fondamentalità di un approccio tecnico e scientifico di qualità, che ha reso e continua a rendere possibile sconfiggere malattie un tempo considerate mortali, che con il supporto delle tecnologie è sempre più in grado di diagnosticare in tempo patologie e circoscrivere i potenziali danni, che, infine, alimenta a ragione le speranze di persone un tempo classificabili e relegabili fra gli inguaribili. Il punto di avvio della riflessione di Marinelli è, allora, la convinzione che sia necessario abbandonare una postura rigidamente ed esclusivamente riduzionista, affinché sia l’approccio tecnico-scientifico a servire la cura, e non viceversa. Non solo: occorre, secondo l’autore, sgomberare il campo da un equivoco piuttosto ricorrente, che nasce da quello stesso approccio riduzionista. Lo sguardo che riduce la medicina a una serie di protocolli, a un mero calcolo costi-benefici, è lo stesso di chi, anziché collocare la malattia all’interno di una storia di vita, la “isola” facendone un ente. Dove lo sguardo oggettivante della scienza si fa più intenso, esso rischia di perdere di vista che la malattia è uno dei fili che costituiscono il racconto autobiografico, ma non ha vita propria, non è certo l’unico e, se può aspirare a essere compreso, non può che riconoscersi in una trama.
Trattare la malattia senza tener conto di questo retroterra antropologico, che fa del dolore e della sofferenza non un accidente, ma piuttosto una condizione che in parte sperimentiamo tutti nella vita, significa misconoscere una dimensione inevitabilmente patica dell’esperienza, anche se non altrettanto necessariamente sempre negativa. Si tratta di una condizione inevitabilmente legata alla nostra finitudine, di cui dobbiamo farci carico avendone cura. Un approccio etico-antropologico che guarda all’intero della persona sarà anche capace di integrare in modo fruttuoso quantità e qualità, competenza e compassione, giustizia e amore, come altrettante polarità che sono fruttuose se tenute insieme e non esasperate. A partire da tale retroterra, in cui lo spazio della cura coincide con lo spazio della vita buona, e in cui la persona non è completamente separabile dall’“ente malattia”, non è completamente oggettivabile in quanto il suo corpo non è solo il corpo che ha, ma anche il corpo che è, soglia che permette all’esperienza di essere accolta, l’autore può soffermarsi sulla ricostruzione delle diverse tappe storiche e scientifiche che hanno condotto all’affermarsi della Medicina Narrativa.
Il testo si apre quindi con una solida ricostruzione del paradigma della tecnomedicina (primo capitolo); segue una trattazione che mira a delineare le implicazioni etico-antropologiche di tale paradigma, attraverso il recupero della distinzione tra Leib e Körper e la definizione dell’“ente malattia” (secondo capitolo); l’autore s’interroga quindi sulla condizione medica, sempre più schiacciata dalla logica prestazionale, lontana ormai dal paternalismo ippocratico che, pur con le sue distorsioni, garantiva la saggezza del medico, vicina alla EBM (Medicina Basata sulle Evidenze). L’analisi della condizione medica va di pari passo con il tentativo di liberare le pratiche di cura da una sorta di deserto relazionale, mettendo in circolo parole e gesti che si potrebbero senz’altro ricondurre a quella che Marinelli definisce la “funzione narrativa” (p. 33) (terzo capitolo). Se il rapporto tra medico e paziente va rifondato, si comprende la ragione per cui l’autore si sofferma sul mutamento della postura del paziente stesso all’interno di quel rapporto: qui la vulnerabilità e la fragilità costitutiva, la condizione antropologica di homo patiens, il richiamo al limite umano sono elementi fondamentali per rifigurare altrimenti la relazione fra chi cura e chi viene curato (quarto capitolo). Richiamandosi anche alla meditazione di Luigi Alici, Marinelli rinvia alla cura come punto di tangenza possibile tra umano e divino, come ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta (quinto capitolo).
Una volta poste le fondamenta epistemologiche e antropologiche della relazione medico-paziente, Marinelli procede alla ricostruzione delle principali tappe epistemologiche ed esperienziali che hanno condotto alla nascita della Medicina Narrativa. Appare sin da subito evidente come tale nascita sia stata favorita da un approccio autenticamente interdisciplinare, in cui scienziati sociali, antropologi, studiosi di letteratura, operatori della cura hanno ragionato sui modelli di malattia e di cura rintracciabili tra le diverse popolazioni umane, nei testi letterari, nell’insoddisfazione diffusa dei medici e degli psichiatri rispetto alle pratiche di cura in cui si trovavano coinvolti. Balint, Engel, la scuola di Harvard, Byron Good, Frank e altri consentono di rintracciare un’esigenza, quella di contestualizzare la malattia nella vita e nel senso che ciascun individuo e ciascuna cultura le danno, e di delineare la risposta a quella stessa esigenza: costruire narrativamente la relazione tra medico e paziente e riconoscere che, tramite lo scambio di racconti, il raccontare e l’essere raccontati, anche la medicina figlia dell’approccio tecnico e scientifico sembra diventare più efficace, a partire da una restituita centralità di quello spazio che si genera nell’incontro fra medico e paziente, in cui spiegare e comprendere si sostengono a vicenda (sesto capitolo).
L’attenzione al rapporto fra discipline STEM e discipline umanistiche è il contesto di riferimento delle Medical Humanities, passaggio obbligato verso la tematizzazione della Medicina Narrativa. La focalizzazione di Marinelli sulla centralità della letteratura per affinare capacità empatiche e comunicative, allenare la capacità di immedesimazione e di riconoscimento dell’altro a partire dalla sua storia conduce ad asserire che obiettivo di ogni relazione di cura dovrebbe essere “riconoscere anziché anonimizzare, connettere anziché isolare, e costruire significati condivisi anziché insignificanze” (p. 82) (settimo capitolo). Chiarita la fondamentalità e la genesi delle Medical Humanities, l’autore può dedicarsi alla ricostruzione della nascita della Medicina Narrativa, facendo evidentemente riferimento a Rita Charon, ai suoi studi e alle buone pratiche a cui la professionista ha dato vita con la sua équipe. Passando in rassegna le idee di close reading, creatività, riflessività, reciprocità, Marinelli evidenzia come Charon abbia chiarito da un punto di vista teorico i valori e le idee che muovono la Medicina Narrativa e abbia praticato tale modalità di relazione sperimentando tecniche di colloquio con i pazienti, forme di narrazione dinamica, a cui contribuiscono tanto i professionisti che coloro che ricevono cura e i loro prossimi. Marinelli fa riferimento a una “coreografia di cura e connessione” (p. 94), che parte dall’attenzione, formula una rappresentazione e, infine, produce connessione (ottavo capitolo). Alla ricostruzione puntuale della prospettiva e dei metodi di Rita Charon l’autore affianca la trattazione di altri approcci alla Medicina Narrativa: da un lato si sofferma sulla rilevanza dell’obiettivo terapeutico e della competenza narrativa come nuclei essenziali della proposta di Charon, che definisce la competenza narrativa “la capacità di riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare e essere mossi dalle storie delle malattie” (p. 101); dall’altro lato, Marinelli passa in rassegna l’approccio socio-antropologico e quello fenomenologico-ermeneutico, riprendendo rispetto al primo la nota distinzione fra illness, disease e sickness, e riconoscendo che in questo paradigma l’idea di malattia acquisisce senso e significato in quanto inserito in trame che si fanno e si rinegoziano all’interno di legami comunitari e sociali, e assegnando al secondo il merito di aver chiarito in modo esplicito le implicazioni etiche del gesto narrativo legandolo a una prospettiva di prima persona (nono capitolo). Infine, Marinelli si sofferma sugli esempi italiani di Medicina Narrativa, menzionando diverse esperienze e progettualità, associazioni di studiosi e professionisti che in varia misura e da prospettive diverse hanno accolto il paradigma della Medicina Narrativa, facendo in modo che questo diventi centrale anche nei percorsi formativi dei professionisti della cura (decimo capitolo). Nelle conclusioni l’autore torna sulla necessità di ripensare le relazioni tra personale sanitario e pazienti all’insegna della persona e della sua centralità, immaginando che le pratiche narrative siano capaci di fornire una dimensione progettuale, e non solo emergenziale o a breve termine, ai processi di cura. Solo in questo modo, luoghi e tempi della cura potranno dirsi umani e potranno concorrere a costruire e ridefinire senso e significato della sofferenza.