ZANATTA, Tóde Ti. La SOSTANZA INDIVIDUALE e le sue strutture nella METAFISICA dell’esperienza di ARISTOTELE
Il testo di Marcello Zanatta Tóde Ti. La sostanza individuale e le sue strutture nella metafisica dell’esperienza di Aristotele, Unicopli, Milano 2021 si configura come estremamente ricco di spessore teorico, oltre che chiaro circa la struttura e le finalità sottese al lavoro in questione. L’opera risulta divisa in due parti e si conclude con due appendici precedute da una fondamentale ricapitolazione.
Lo studio è pensato per tentare di rispondere a due questioni problematiche:
1. Comprendere come e in che misura l’analisi della sostanza individuale si collochi nel complesso del pensiero filosofico dello Stagirita. Da questo punto di vista Zanatta si discosta dall’interpretazione evoluzionistica offerta da Jaeger[1], proponendo invece un percorso teoretico unitario che presupponga «successivi e progressive assunzioni dottrinarie» (p. 9) da parte del Filosofo. Il leitmotiv dell’intero volume è quello di ricercare la ragione profonda dell’inscindibile unione di materia e forma nel sinolo, la ratio che in qualche modo dia spiegazione della loro unione in una unità strutturale.
2. Indagare se, alla luce della disamina precedente, in Aristotele è presente la concezione secondo cui la sostanza individuale si dà nella presenza.
L’autore prende le mosse dalla dottrina delle Categorie, dove lo Stagirita fornisce una “mappa” della totalità degli enti in virtù della quale viene affermata la centralità ontologica della sostanza individuale, ovvero del tóde ti. Già osservando il termine greco è possibile notare una ambivalenza (mai contraddittoria) di fondo: il neutro indefinito ti sta ad indicare l’impossibilità di una determinatezza; il pronome dimostrativo tóde, invece, la specificità e l’individualità di questo “alcunché”. Questo, naturalmente, confuta ogni possibilità che il tóde ti possa porsi – per lo Stagirita – nella presenza. Il ti rifiuta, inesorabilmente e originariamente, la presenza stessa. Piuttosto la sostanza individuale è quel «certo questo» che si incontra nell’esperienza. Pertanto, il darsi nella presenza non è certamente la caratteristica ontologicamente prima con cui Aristotele intendeva parlare della sostanza individuale e, più in generale, dell’ente.
Tale ambivalenza, cioè la dialettica tra determinato e indeterminato, viene risolta presupponendo che la sostanza individuale da una parte non inerisce a niente (il ti indeterminato), mentre dall’altra la sua determinatezza non viene attribuita ad altro se non a sé stesso (la determinazione espressa dal tóde).
Da tale disamina l’autore giunge – mediante una arguta mossa teorica – a parlare della potenza e dell’atto, della materia e della forma. Infatti «l’indeterminatezza è la dimensione di ciò che non ha o non ha ancora una determinazione e che come tale può assumerla, il determinato appartiene alla sfera di ciò che ha “attualmente” già raggiunto una forma» (p. 170).
Analizzando, poi, più approfonditamente e specificatamente la materia e la forma, Zanatta giunge alla conclusione che la prima (in special modo la materia prossima, dunque la materia ontologicamente intesa, ma lo stesso vale anche per la materia metafisicamente concepita) non risulta essere semplice potenza di qualcosa, ma ha già in sé, potenzialmente, la forma; la seconda, invece, è ingenerabile. Proprio questa scoperta ermeneutica consente all’autore di implementare efficacemente la risposta alla seconda domanda da cui l’opera prende avvio. La materia, in quanto forma in potenza, e la forma, in quanto determinazione in atto nel sinolo e non in sé stessa, esclude a priori la presenza. Quest’ultima, infatti, richiede necessariamente la forma in sé sussistente; eventualità – questa – non possibile se si prende come punto di vista il sinolo.
Per queste ragioni Zanatta, riprendendo espressamente la qualifica offerta da Gustavo Bontadini[2], parla di “metafisica dell’esperienza” e non della “presenza”.
A seguito della disamina appena esposta, l’autore prosegue, nel secondo capitolo, dimostrando la strutturale e necessaria unione di materia e forma nel sinolo. Per fare ciò, passa in rassegna le argomentazioni dei filosofi cosiddetti “presocratici” – sia monisti che pluralisti – e le critiche a loro rivolte da Aristotele in riferimento alla dottrina dei quattro elementi e a quella – da essa immediatamente deducibile – dei contrari. In questo modo, l’autore trae la conclusione che «il mutuo trasformarsi degli elementi e il darsi di una materia prima quale sostrato degli elementi sul quale operano i contrari equivale ad affermare un unico plesso concettuale giacché le due affermazioni si implicano a vicenda» (p. 191). Viene così confermata la necessità della materia prima di essere, ontologicamente e potenzialmente, costituita dai contrari in entelecheia - e, dunque, non in assoluto – e informata, invece da questi ultimi in senso assoluto. La stessa condizione osservata per quegli enti che hanno come componente materiale i quattro elementi vale, dunque, anche per gli elementi stessi. La seconda parte si conclude con una domanda che muove l’intera sezione dell’opera: “la forma è eterna?” La risposta che l’autore offre, prendendo in esame dettagliatamente le opere del Filosofo, è ambivalente: è eterna, in quanto ogni elemento è universalmente e necessariamente determinato da una precisa contrarietà; al tempo stesso, però, gli elementi, trasformandosi, rendono impossibile l’eternità della forma. Non c’è contraddizione in quanto appena detto: l’eternità e la non eternità non si danno sotto lo stesso rispetto e nello stesso tempo. Non violano, cioè, il principio di non contraddizione[3].
In conclusione, dunque, è possibile affermare che il testo di Zanatta offre una acuta interpretazione di uno dei capisaldi della metafisica aristotelica, nel rispetto dell’originale pensiero del Filosofo, cogliendone, volta per volta, le “sfumature” e gli spostamenti.
[1] Cfr. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, La Nuova Italia, Firenze 1964.
[2] G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1995. In particolare, si vedano le pp. 53-57, specificamente dedicate allo Stagirita, e pp. 98-99.
[3] Cfr. Metafisica Γ 3, 1005 b 19-20.
Daria MAZZIERI, Erica NAPOLETANI