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HAN, La scomparsa dei RITI

Byung-Chul Han è un autore di grande rilevanza per chiunque riconosca la necessità di una rilettura critica dell’uomo moderno. Le sue opere indagano principalmente la prospettiva sofferta dell’individuo, che vive in un’epoca di incessante autoproduzione di sé: un’attività sfibrante che porta, secondo il filosofo, a risvolti tragici come la depressione e il burnout. Tra le sue opere di maggior successo troviamo titoli come: La società della trasparenza; La società della stanchezza; La scomparsa dei riti. Proprio in questo testo, Han formula una diagnosi accurata dell’uomo contemporaneo.

Soffocato dalla progettualità irraggiungibile del proprio sé, l’individuo si veste dell’aspetto più patologico di un mondo globalizzato. Ogni espressione di individualità ha perso, per così dire, la sua pudicizia, dando sfogo ad una "società dell’intimità e della messa a nudo. Tale nudismo dell’anima le conferisce tratti pornografici" (p. 23). Nulla viene più scoperto: dall’arte alla semplice quotidianità l’uomo sembra aver perso ogni capacità di immergersi nelle cose. L’accelerazione dei ritmi vitali ha fatto sì che la consuetudine cedesse il passo alla novità. Questa novità non si identifica però tanto con la scoperta, quanto piuttosto con la semplice necessità di soddisfare appetiti sempre nuovi e sempre più complessi, nati precisamente dal processo tipico della globalizzazione: la creazione di bisogni che, sebbene superficiali, vengono interpretati come fondamentali alla sussistenza umana. Il punto sul quale Byung-Chul Han si sofferma è proprio il paradosso che ne deriva: il soddisfacimento di questi nuovi appetiti genera un’inappetenza spirituale, che ha come risultato l’atrofia del pensiero critico.

Dunque, è proprio questo cambio di velocità a generare nell’uomo una progressiva e totale perdita del ritualismo. I riti non vanno ovviamente intesi come banali gesti privi di significato. La loro semplice bellezza, l’armonia che ne deriva e la de-personificazione che richiedono per essere eseguiti, permettono al soggetto da una parte di riscoprire il fascino dietro dei semplici gesti, mentre dall’altra posseggono il pregio di svincolarlo dalla forza entropica della vita moderna. I riti sembrano avere la capacità di sospendere la tensione che quotidianamente pervade l’uomo. L’atto cerimoniale, essendo privo di intenzionalità e non richiedendo alcuno sforzo mentale, permette all’individuo di godere di una vera pausa dall’attività produttiva. Nella società del capitalismo, la pausa ristoratrice viene ormai declassata a semplice momento in cui ci è concesso di riprenderci dalle fatiche del lavoro. Questo riposo illusorio, secondo Han, porta con sé il germe del burnout: l’uomo oscilla come un pendolo tra l’assenza di attività e l’impossibilità di riprendersi del tutto dalle sue fatiche, cadendo inevitabilmente nell’esaurimento di sé. Il riposo effettivo sta, piuttosto, nel deviare completamente la nostra attenzione dalla produttività.

In una società di questo tipo viene meno anche la giocosità dell’arte. Il significato di un’opera prende il sopravvento sul suo significante, facendo sì che l’involucro – il tratto, il colore, o anche le parole nel caso della poesia – passi totalmente in secondo piano rispetto al suo contenuto, al messaggio che veicola. Per l’autore, ciò rappresenta un tragico salto indietro. È precisamente l’esuberanza del significante a fare dell’arte ciò che è. Il filosofo esemplifica questo concetto a partire dallo Haiku: la bellezza di questo componimento poetico risiede unicamente nella sua forma, diretta e priva di un significato più profondo. L’involucro, che primeggia rispetto al contenuto, rappresenta la caratteristica fondamentale del rito.

Nella società globalizzata è presente l’immagine di una grande comunità priva di confini, in cui la comunicazione è resa praticamente immediata dai nuovi mezzi tecnologici. Han però smaschera senza troppe difficoltà questo inganno: la “internet-community” non comunica davvero, c’è solo una spudorata messa a nudo. Comunicazione e trasmissione di informazioni – fenomeno ben più comune nella nostra epoca – nascono da radici opposte: la comunicazione ha una matrice narrativa, che si esprime nella forma del racconto, mentre la trasmissione di informazioni si riversa nell’immagine di un “riempimento sregolato”, che ha come risultato la paralisi. L’uomo, percosso da un numero esorbitante di stimoli ed incapace di discriminare uno solo di essi, raggiunge essenzialmente uno stato di impotenza.

Il racconto, d’altro canto, prevede una chiusura: si tratta di un significato, ben avvolto nell’involucro di un significante, che viene confermato e trasmesso all’altro. In questo senso, la narrativa è nemica dell’epoca moderna, dal momento che questa forma di chiusura porta con sé inevitabilmente una pausa e, nella società della produzione, fermarsi equivale a diventare un esubero. È qui che Han introduce il concetto chiave dell’opera: il gioco. La vita deve essere vissuta come un “gioco forte”, arrivando a scommettere perfino sulla propria sopravvivenza. Il mondo della produzione, dove si scommette solo in vista di un guadagno, ha declassato il gioco a semplice momento di recupero dal lavoro, un recupero che ha come unica utilità, quella di renderci immediatamente pronti ad un nuovo processo produttivo. La forma più autentica del gioco, quella forte, consiste invece nell’essere sovrani di sé stessi, disponendo della nostra vita come meglio crediamo. L’analogia incalzante proposta dall’autore è quella tra un moderno soldato e un antico guerriero. Il primo, combattendo per denaro, è un produttore salariato come tutti gli altri; pertanto, non scommette la sua vita, ma semplicemente la commercia. Il guerriero, invece, gioca al gioco forte della vita, è sovrano di sé e non teme la morte, anzi, la concepisce come la massima espressione della sua energia vitale. Il coraggio e l’ardore di questa seconda figura emergono proprio nel momento in cui la sua esistenza è in palio. Chiaramente qui Han non sta esaltando alcuna forma di spregiudicatezza nei confronti della vita, sta riconoscendo piuttosto la morte come parte integrante di essa. La morte come fine, come chiusura infatti, conferisce senso alla vita, un senso che l’uomo moderno sembra aver perso. La chiusura della morte, la pausa che essa impone, entra fondamentalmente in contrasto con la logica utilitarista e produttiva della modernità e, stando così le cose, nell’individuo nasce la paura nei confronti di tale fenomeno.

Ogni gioco ben fatto – e quello della vita deve esserlo necessariamente – ha bisogno di regole per funzionare. È così che, grazie a esso, l’uomo riscopre la bellezza delle forme e delle regole che qualificano i riti. I riti svuotano il soggetto, lo de-psicologizzano, alleggerendolo dal peso della sua stessa progettualità. In questo, si riconosce la concretezza di un individuo svincolato da qualsiasi immagine di sé autoimposta: egli rinnega il sé, inteso come progetto basato su una modernità priva di chiusura e priva di senso, che fa dell’eccessiva apertura a ogni stimolo la sua firma.

Federico TAVOLETTA


IL LIBRO: 

Byung-Chul HAN, La scomparsa dei riti: una topologia del presente, Nottetempo, Milano 2021, pp. 144.

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