E. BERTI, Tradurre la METAFISICA di Aristotele / P. AUBENQUE, La Metafisica di ARISTOTELE
Tradurre la Metafisica di Aristotele (2017) di Enrico Berti e La Metafisica di Aristotele. Senso e struttura (2018) di Pierre Aubenque – Editrice Morcelliana, collana “Piccoli fuochi” – sono saggi brevi ma di profondo spessore teorico. I due illustri studiosi, infatti, tracciano alcune linee guida per tradurre, leggere e interpretare un pilastro del pensiero occidentale, cioè la Metafisica di Aristotele, ma secondo una nuova luce ermeneutica. Entrambi gli autori muovono da una stessa impostazione argomentativa, che li porta ad assumere come dato critico la difficoltà e l’unicità dell’opera aristotelica, che non è ascrivibile ai canoni classici del trattato filosofico. In effetti, tanto le vicende legate alla tradizione del testo quanto la particolare struttura compositiva hanno un peso determinante nell’analisi dei contenuti dell’opera.
Ad esempio, Enrico Berti, per la sua recente traduzione della Metafisica[1], in via del tutto originale si discosta dalle edizioni critiche più autorevoli del Novecento, cioè quelle di William D. Ross e di Werner Jaeger. Egli, infatti, accoglie e approfondisce i risultati di un innovativo filone di ricerca intorno alle famiglie di manoscritti del testo aristotelico, dette alpha e beta. Solitamente gli editori moderni hanno prediletto i testi dei manoscritti beta che, però, risentono dell’interpretazione dei commentatori antichi, in particolare di Alessandro di Afrodisia. Secondo questa prospettiva, la metafisica esordisce come “ontologia” e culmina in “teologia”, riconducendo tutte le cause al primo motore immobile, considerato Dio. Questa linea esegetica si è conservata e irrobustita nei secoli, al punto che ancora oggi molti studiosi tendono a considerare la Metafisica un’opera di “teologia razionale”. Berti, invece, rompe con questa tradizione e si basa sui testi dei manoscritti alpha, ritenendoli più affidabili perché non mediati dal filtro dei commentatori. La scelta si rivela determinante in quanto permette di illuminare un profilo inedito dell’opera aristotelica in cui l’impianto teologizzante perde vigore. Ciò si coglie, per esempio, confrontando i passi dei due manoscritti relativi a Metafisica A, 1, 993b19-23 (pp. 9-10). Qui si legge che il fine della filosofia, secondo la famiglia beta influenzata da Alessandro, è la conoscenza dell’eterno (in greco to aidion), mentre secondo quella alpha è la conoscenza della causa (in greco to aition). La differenza testuale è quasi impercettibile ma lo slittamento semantico è netto e Berti si colloca lungo questo secondo asse di cui trova conferma nell’intera opera. Tale impianto teorico innovativo, inoltre, si riverbera anche nel lavoro di traduzione, affinché sia il meno possibile un tradimento. Lo studioso, infatti, decide di mantenere il testo oscuro e difficile, perché tale è la Metafisica, propende per una traduzione “senza compromessi” di alcuni termini concettualmente rilevanti. Ad esempio, il sostantivo theoria (pp. 33-34) è spesso reso con “contemplazione”, talvolta con “speculazione” ma entrambe le soluzioni sembrano travisarne il significato autentico: la prima perché ha una forte valenza religiosa, la seconda perché è un termine dal sapore idealista. Berti, invece, opta per “conoscenza teoretica”, cioè per un’espressione che restituisca appieno l’idea di una ricerca razionale della cause prime, in linea con la movenza teorica cardine dell’opera.
Oltre ai problemi di testo e di traduzione, la Metafisica pone anche difficoltà interpretative, legate al significato generale delle dottrine di cui tratta. Lo studioso si sofferma su due problemi, oggetto di un dibattito plurisecolare, relativi al primo motore immobile. Il primo concerne la definizione di questo come causa efficiente o causa finale. Infatti, seguendo la lettura di Alessandro di Afrodisia, i commentatori antichi e moderni hanno sostenuto la tesi della causalità soprattutto finale e in una prima fase delle proprie ricerche anche Berti condivideva questa teoria. Ma in seguito ad uno studio più attento del libro Lambda della Metafisica, in cui sono esposte tali questioni, egli si è convinto che è possibile avanzare un’interpretazione diversa. Infatti, ricostruendo il ragionamento aristotelico, lo studioso dimostra che per spiegare il movimento eterno del cielo è necessario un motore efficiente e totalmente in atto, cioè il primo motore immobile, che non è il “verso cui” ma il “da cui” del moto di tutte le cose, quindi causa efficiente. Il secondo problema, invece, riguarda un’altra nota definizione per cui il primo motore immobile è “pensiero di pensiero”. Anche in questo caso, Berti si rifà agli argomenti del libro Lambda e avanza una spiegazione innovativa. Per Aristotele, infatti, ciò non significa che esso non pensi ad altro che se stesso o che sia vuota autocoscienza, ma che ha intellezione del suo avere intellezione di tutte le essenze, cioè di tutte le forme e di tutti i principi, unificandole in un intendimento unico ed eterno. Dunque, i guadagni teorici del lavoro di Berti convergono in un’acuta reinterpretazione dell’opera aristotelica, che va oltre una prospettiva di stampo neo-platonico ma riabilita l’idea di filosofia prima come scienza delle cause e dei principi.
Seguendo un percorso argomentativo differente, anche il saggio di Pierre Aubenque propone una rilettura del testo dello Stagirita. Lo studioso francese, infatti, prende le mosse dalla particolare struttura della Metafisica, ritenendola un dato imprescindibile per cogliere il senso generale dell’opera. Egli sottolinea a più riprese il carattere incompleto del testo aristotelico che, in quanto “quaderno di appunti”, è privo di una architettura ordinata. Pertanto Aubenque ribadisce l’impossibilità di commentare l’opera di Aristotele come se fosse un trattato filosofico al pari dell’Etica di Spinoza o della Critica della Ragion Pura di Kant. Tale consapevolezza si riverbera nella messa a punto di un diverso metodo di lettura[2], che Ilario Bertoletti, in Nota del traduttore, appendice che impreziosisce il saggio, reputa paradigmatico per la riflessione contemporanea intorno alle opere aristoteliche e non solo. Infatti, Aubenque delinea un quadro ermeneutico che diverge dalle prospettive filologiche più note, cioè quella “genetica” di Jaeger e quella “linguistica” di Heidegger. In particolare, il paradigma jaegeriano appare inattendibile perché poggia su un’intuizione non certificata, volta a sciogliere una presunta contraddizione interna al testo: Aristotele definisce la metafisica ora scienza dell’essere, quindi ontologia, ora scienza dell’eterno, quindi teologia. Il modello evolutivo proposto da Jaeger ipotizza che la posizione aristotelica evolva secondo una logica temporale, per cui le parti del testo teologizzanti sono antecedenti a quelle di carattere ontologico. Per Aubenque, invece, un esame più oculato dell’opera permetterebbe di cogliere i diversi assi teorici della Metafisica, che meritano di essere letti in modo incrociato, secondo un paradigma inclusivo. In effetti, l’interesse per le essenze sensibili non sostituisce l’indagine intorno a quelle eterne ma arricchisce il ragionamento: Aristotele non propone un’argomentazione stratificata nel tempo o contraddittoria ma irriducibilmente complessa. Anche il modello heideggeriano presenta alcuni limiti evidenti. Infatti, l’impostazione filologica adottata, per cui il testo è “sacro” e merita di essere analizzato in ogni sua parte, soffermandosi anche sulle singole parole se necessario, appare inefficace nello studio dell’opera aristotelica. La Metafisica procede per ripetizioni, approssimazioni, correzioni e non tutti i vocaboli sono parimenti significativi e “parlanti”. Pertanto, sarebbe più opportuno adottare uno schema ermeneutico meno puntuale ma che consideri l’opera nel suo insieme, raccordando i molteplici fili del ragionamento sviluppati nel corso del testo.
Aubenque, quindi, propone una chiave di lettura differente, più utile per cogliere il senso della Metafisica. Nello specifico, lo studioso riscontra una interessante affinità tra il procedimento dialettico, messo a tema nei Topici, e l’andamento argomentativo della Metafisica (pp. 25-27). A dispetto di quanto sostenuto dalla maggior parte dei critici, la filosofia prima, pur essendo la scienza più alta di tutte, non segue una rigorosa logica dimostrativa, al pari di quella sistematizzata negli Analitici. Piuttosto Aubenque mostra che l’acribia dei ragionamenti apodittici non appartiene alla metafisica, perché non è una scienza compiuta ma una ricerca senza fine dell’assoluto, quindi strutturalmente aporetica. Si tratta di un’affermazione forte ma valida perché testualmente fondata. Infatti, è lo stesso Aristotele a sostenere che la domanda intorno all’essere si configura come una eterna aporia (Metafisica, Z, 1, 1028 b 3). Ciò è dovuto al fatto che la Metafisica poggia sulla scissione incolmabile tra il bisogno umano di una totalità di senso e la consapevolezza della propria invalicabile finitudine. Tuttavia, questa impossibilità non si traduce in un atteggiamento rinunciatario ma esige la perseveranza in una indagine asintotica verso un obbiettivo consciamente irraggiungibile. Dunque la filosofia prima, da scienza incompiuta si fa scienza dell’incompiutezza o, con le parole di Bertoletti, è «scienza ricercata, e sempre da ricercare, in forza del proprio andamento diaporetico, problematizzante» (p. 40).
Per concludere, si può affermare che i saggi di Berti e Aubenque, attraverso esempi calzanti e argomentazioni chiare, hanno il pregio di mostrare un’immagine della Metafisica insolita ma più rispettosa dell’originale disegno aristotelico, scevra, per quanto è possibile, di altre mediazioni interpretative. Non solo. Questi scritti offrono al lettore anche un’ulteriore preziosa indicazione di metodo. Tra le righe, infatti, trapela l’attitudine esemplare dello studioso attento, pronto a criticare sia i risultati delle proprie ricerche sia tradizioni ermeneutiche consolidate mai per boria ma sempre per amore del vero.
Federica Piangerelli