D. Le BRETON, Ridere. ANTROPOLOGIA dell’homo RIDENS, Raffaello Cortina, Milano 2019, 253 pp.
Il riso è un fenomeno universale con motivazioni particolari, questa l’affermazione che sostiene e unisce i fili della riflessione storico-antropologica e filosofica che s’intrecciano nel denso volume di David Le Breton Ridere, Antropologia dell’homo ridens.
La complessa esperienza del ridere non possiede una matrice unitaria, al contrario è possibile riconoscere come nel corso dei secoli e nelle diverse culture si sia assegnato un valore diverso al riso, cogliendolo come una modalità espressiva del vivere sociale o come una forma volgare e scomposta del reagire al sistema convenzionale e normativo vigente, da parte degli esseri umani.
Nei diversi contesti socio-culturali si decide di assegnare al riso una funzione e un significato diversi. I gruppi condividono, mediante il riso, esperienze e convinzioni profonde, con le quali stabiliscono confini netti tra chi merita di appartenere alla cerchia degli aderenti e chi, invece, viene rigettato, estromesso come elemento estraneo. Accanto a ciò, vengono differenziate le risa dei giovani e degli adolescenti che sono rumorose, scomposte dalla sottile ironia degli adulti, che elaborano più complessi sistemi per deridere e ironizzare su ciò che appare come eterogeneo ed difforme.
Nella forma passiva della derisione, come in quella attiva della comicità, il riso è una manifestazione singolare e specifica dell’essere umano e se per un verso “solleva dalla difficoltà di essere se stessi offrendo una distanza gioiosa dagli eventi e insegnando a tollerare l’ineluttabile” (p. 30), per l’altro si offre come un genere peculiare di “consolazione rispetto a un quotidiano talora cupo” (p. 31).
Il legame che si viene a creare è un chiaro indizio del valore positivo del riso che, tuttavia, deve essere condotto per evitare che fuoriesca, in modo inopportuno, dalle linee che devono essergli assegnate nella nostra esperienza.
Un fenomeno a parte sembra essere per Le Breton lo sfogo della ridarella nel quale si condensano tutte le tensioni emotive fino all’irrefrenabile e sconveniente scoppio della risata nelle circostanze meno opportune, come racconta lo stesso Franz Kafka in un noto passaggio della sua opera.
Occorre anche prestare attenzione all’educazione per permettere a tutti i bambini di conoscere e sperimentare il valore positivo del ridere. Come osserva lo stesso autore, infatti, “in una famiglia in cui non si ride per niente, il bambino non sviluppa alcuna attitudine all’allegria” (p. 41), si direbbe non sperimenta nessuna possibilità di lasciarsi andare e alleggerire la tensione con un sorriso.
Accanto al sano rilassarsi con una risata, vi è il ridere isterico e nervoso, espressione di una tensione irrefrenabile e del timore di non essere accettati. Il riso è dunque uno schermo e un’arma come ad esempio quella di cui si servono i bulli per denigrare e mettere in ridicolo qualcuno, cogliendo nei difetti fisici o comportamentali il bersaglio sul quale sferzare i colpi delle proprie risate feroci.
In questo caso ridere diventa un modo per disprezzare qualcuno, farlo sentire inadeguato e fuori posto, fargli sentire il peso di una differenza irriducibile. Il bersaglio del riso può essere una persona singola oppure un’istituzione, un’idea condivisa da alcuni ma non da tutti. Mediante frasi create ad hoc il linguaggio si presta e si piega a suscitare il riso, come è evidente nei motti di spirito che Le Breton analizza sulla scia di Freud. Infatti, “il motto di spirito smonta la rigidità del linguaggio, introducendo una flessione nelle espressioni di tutti i giorni e dimostrando che il linguaggio consta di innumerevoli strati di senso” (pp. 57-58).
Un’attenzione a parte è riservata anche al rapporto tra riso e religione mostrando come se vi sono tradizioni religiose più sensibili al riso, in altre si riscontra una vera e propria ostilità che cela il timore di dover intaccare la struttura stessa del dogma. Per tutte vale però anche il riconoscimento della storicità legata al riso e cioè delle possibili trasformazioni rinvenibili nelle diverse culture ed esperienze religiose.
Tra le figure, almeno nel contesto della tradizione religiosa Occidentale, di maggiore novità Le Breton riconosce a san Francesco d’Assisi il merito di aver operato una svolta e una cesura rispetto agli ordini monastici che lo hanno preceduto, dove rigore e preghiera sembravano essere decisamente contrari a qualsiasi forma di distensione prossima al riso. In effetti “l’allegria diviene per Francesco un principio di spiritualità, la “povertà nella gioia”” (p. 106). Accanto a ciò, le feste popolari chiassose e volgari e i buffoni di corte dal ruolo politico indiscusso confermano l’ambivalenza del riso, espressa fin dall’inizio del saggio.
Con sempre maggiore evidenza il riso si fa apprezzare come l’esperienza con cui praticare il distacco emotivo e la distanza ludica e critica dalle diverse circostanze come è evidente nel XIX secolo quando l’espressività comica incontra le nuove tecnologie. In questo contesto “Il riso si massifica perdendo, però, la festosità, per divenire una sorta di riflesso sociale privo di rilevanza” (p. 138).
Usato sempre come arma del disprezzo, il riso è centrale nella satira politica, anche quella più pungente e pericolosa come nel caso di Charlie Hebdo, che non rinuncia a provocare e sconvolgere pur di difendere la libertà di espressione, mentre “l’integralismo mette il riso sotto chiave, interpretandolo subito come un insulto alla serietà necessaria alla relazione con il divino” (p. 177).
Dinanzi all’ostilità di un ambiente percepito come estraneo e inospitale, il riso conferma di essere uno strumento usato, questa volta, non per colpire ma solo per difendersi da qualcosa e da qualcuno che percepiamo come distante da noi stessi. Riaffiora la capacità tutta umana di prendere distanza anche da se stessi, oltre che dagli altri “per non essere vittima del proprio personaggio e di muoversi agevolmente tra le asperità della trama sociale” (pp. 185-186). Può sembrare strano, per non dire assurdo, scoprire il riso nei luoghi dell’esercizio della violenza fisica, così come riconoscerlo come una pratica che via via affiora e si afferma per la sua portata terapeutica.
Sottraendo l’individuo al dominio dell’angoscia, il riso solleva e allevia la morsa del negativo, il suo è quasi un sussurro per ricordarci di non prendere niente troppo sul serio e di non attaccarci, in modo ossessivo, a nessuna realtà, perché ciascuna manifesta la propria inconsistenza. È proprio quest’ultimo motivo che rende forte la vittima anche dinanzi al proprio persecutore, perché il riso non solo si sforza, ma sembra anche riuscire nell’intento di “tutelare la dignità personale quando le condizioni sociali vorrebbero calpestarla” (p. 201). Se è vero, ammette Le Breton, che c’è un umorismo sarcastico è altresì vero che ve n’è uno macabro com’è quello della disperazione dei campi di sterminio.
Tra la leggerezza dell’ironia e dell’autoironia e la possibile violenza perpetrata anche mediante una maschera da pagliaccio, il riso si rivela come una dimensione complessa che, attraversando molte epoche e coagulando molti interessi, getta un fascio di luce sulle potenzialità delle persone. Permettendo di prendere le distanze dagli eventi, il riso si rivela come una forza e un potere di cui gli esseri umani possono sempre disporre e che risolleva dalle situazioni difficili e insensate. Ciò perché come dice Le Breton a cui affidiamo l’ultima parola: “Il riso protegge contro lo sconforto e la paura, è l’ultima raffinatezza di senso per non cedere alla pesantezza dell’evento, mantenendo la coscienza in allerta” (p. 224).
Donatella PAGLIACCI