Chul-HAN, La società senza DOLORE
‹‹Life going nowhere […] I’m stayin’ alive.››[1]
(La vita non va da nessuna parte […] Io rimango vivo.)
Nel 1977 nella luccicante Manhattan si canta come un mantra Stayn’ Alive dei Bee Gees, brano che incarna l’imperativo categorico della società borghese e contemporanea: sopravvivere.
Sebbene l’istinto di autoconservazione sia inscritto biologicamente in noi in quanto esseri viventi e abbia una sua precisa importanza, perseguirlo senza scopo appare allarmante per molti. Tra questi vi è Byung-Chul Han che in questo saggio esplora come la cultura neoliberale abbia portato alla costruzione di una società della sopravvivenza, della performatività e della rimozione del dolore.
La sopravvivenza fine a sé stessa rappresenta l'ideale borghese per eccellenza, come sostenuto da Adorno e Horkheimer.[2] L’obiettivo non è più vivere una vita piena e significativa, ma vivere quanto più a lungo possibile, spostando l’attenzione dalla qualità alla quantità dell’esistenza. Questo tuttavia significa sacrificare il piacere, sia individuale che collettivo. Han osserva che «al capitalismo manca la narrazione della buona vita. Esso assolutizza la sopravvivenza».[3] Per recuperare il senso della vita, è necessario dunque riappropriarsi dell’aspetto qualitativo dell’esistenza e riconoscere l’importanza di vivere una vita «buona». In questo contesto, è fondamentale imparare a sentire il dolore e ripristinare il suo ordine simbolico.
La sofferenza, secondo Han, è irriducibile e può solo essere diluita. Paradossalmente, l’ideale della positività che permea la nostra società porta a dolori ancora più opprimenti nei quali l’individuo finisce per annullare sé stesso, distruggendosi.
Han sottolinea anche il rapporto tra verità e dolore: se tutto ciò che è vero è in qualche modo doloroso, in quanto implica la rottura di qualcosa per arrivare a qualcos’altro, allora la società senza dolore è anche una società senza verità. Questo concetto riecheggia nuovamente in Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer, che affermano che «la felicità implica verità; è essenzialmente risultato; si sviluppa dal dolore superato».[4] Se pensiamo alla vita come un insieme di esperienze, questa non può darsi senza un processo dialettico che comprenda la sofferenza poiché nessuna trasformazione avviene senza patimento. Ne risulta che il tentativo fallimentare di eliminare il dolore, lungi dal procurare benessere all’umanità, la conduce in un baratro dell’indistinto che porta allo svuotamento della vita e infine alla morte.
Oggi il dolore è percepito come un elemento di disturbo, un ostacolo all’ottimizzazione di una vita sempre più “smart”. Tuttavia, nel brillante saggio di Han emerge come esso sia costitutivo dell’essere, capace di insegnarci qualcosa, rendere possibile un’esistenza completa e renderci capaci di percepire noi stessi come vivi. Questa insistenza sulla positività ci ricorda di continuo cosa non siamo e cosa ci manca. Questo ci rende impossibile una percezione e una conoscenza profonda del sé. In fondo è solo quando proviamo dolore a un arto del corpo che riusciamo davvero a percepirlo e ci rendiamo conto di esistere come individui corporei in una realtà materiale. Questo sapere, nell’era della smaterializzazione e dell’identità sempre più sfumata e virtuale, è più che mai necessario e illuminante. Tuttavia, la nostra società lo ha svuotato di significato.
Nonostante si auspichi alla sua rimozione, il dolore è ancora presente, ma non è più capace di insegnare nulla all’individuo, se non la sua stessa auto-distruzione. La sofferenza non è più qualcosa che ci viene dall’esterno, ma è auto-imposta. A questo proposito nel testo vengono distinte due diverse società: quella disciplinare, in cui l’individuo è controllato da regole esterne e punizioni, e la «società del burnout», dove la pressione è auto-inflitta. In questa società, l'individuo è costretto a superarsi continuamente in modo esasperato, rischiando il collasso psicologico e fisico. Questa è la società del «tutto è possibile», in cui il concetto di performance diventa dominante. L'individuo non è più una vittima del potere, ma si rende complice del proprio sfruttamento, attraverso un autosfruttamento che lo porta a cercare il successo personale a qualunque costo, anche al prezzo della perdita di senso della propria esistenza.
Secondo Han la nostra è una società palliativa che porta a un’anestetizzazione permanente. Il tentativo è oggi quello di rimuovere o di forcludere ogni esperienza negativa. Ma è un’ipocrisia tutta Occidentale. Infatti, quest’obiettivo non si traduce effettivamente in una missione di salvezza nei confronti del genere umano, anzi sappiamo che più di un miliardo di persone soffrono di povertà estrema nel mondo e sono circa 50 i paesi coinvolti nelle guerre secondo il Global Peace Index del 2024. Non si tratta, quindi, di una reale eliminazione della sofferenza quanto di una sua censura e una sua distorsione.
Questo tipo di società non può non avere conseguenze sulle relazioni interpersonali. L’individuo contemporaneo è un individuo Hobbesiano, che lotta solo per sé stesso e i suoi interessi, avendo reciso il suo legame con gli altri. Nella società contemporanea anche le “pene d’amore” e la possibilità di un investimento di tipo emotivo in una relazione, sono viste come un male da estirpare. Le relazioni sono sempre più liquide come direbbe Bauman. Ma angosciarsi per l’altro e permettere che l’altro si angosci per noi significa vivere un amore autentico. Siamo davvero disposti a rinunciare a vivere in modo così intenso le relazioni per la paura di soffrire? Il risultato di ciò è inevitabilmente una società fatta di individui isolati, atrofizzati, meri ingranaggi periodicamente sistemati per far sì che non si rompano, ritardando ma non potendo eliminare il momento della loro fine.
In conclusione, il saggio di Byung-Chul Han invita a riflettere sulle conseguenze di una società algofobica. che ha trasformato il dolore da esperienza educativa a minaccia da eliminare. Ma è proprio il dolore che ci rende vivi, che ci permette di comprendere noi stessi e gli altri e che ci insegna a vivere una vita piena di significato. L’eliminazione del dolore, quindi, non porta alla liberazione ma alla disgregazione dell’individuo e della comunità.
È impensabile estirpare la sofferenza dalla trama della nostra vita. Ciò è impossibile ma anche distruttivo perché disfa tutto il resto, anche il positivo a cui è inevitabilmente legato e che rende possibile. Perciò quando cerchiamo di evitare il dolore ci priviamo di una parte fondamentale della nostra esperienza, anestetizzandoci nei confronti della realtà tutta.