Byung-Chul HAN, Filosofia del buddhismo ZEN
Docente di filosofia presso la Universität der Künste di Berlino, Byung-Chul Han è un filosofo sudcoreano particolarmente interessato al carattere patologico della modernità e dell’uomo che la vive. Riservato e discreto nella vita privata, fa trasparire nei suoi scritti questa riservatezza nei termini di una “preziosa intimità”. È proprio da qui che bisogna ripartire per la realizzazione di un Uomo nuovo, che non sia né chiuso in sé stesso, né tantomeno “trasparente” allo sguardo altrui. Precisamente sulla relazionalità si incentra quindi il saggio Filosofia del buddhismo zen.
Nel libro, edito da nottetempo, Byung-Chul Han instaura un dialogo fuori dal tempo con grandi nomi della storia della filosofia. Da Platone ad Heidegger, l’autore adotta un approccio comparativo tra pensiero occidentale ed orientale. L’intento qui è quello di dipanare il senso del buddhismo zen, che più di altre forme di buddhismo si rivela refrattario al linguaggio e a qualsiasi insegnamento chiaro e diretto, risultando notevolmente difficile da comprendere. L’opera, composta di sette capitoli, illustra in ognuno di essi un aspetto di questa tendenza, a cominciare dall’assenza di un’entità regolatrice e dominatrice, che la rende una “religione senza dio”. Han elabora questo complesso aspetto contrapponendolo al principio dell’assoluto hegeliano. Per il filosofo tedesco il ruolo della persona, nel processo di auto riconoscimento dell’assoluto, viene svuotato del suo senso quando si riversa nella totalità. Il singolo viene così elevato ad un Uno sostanzialmente più importante. Nel pensiero buddhista non è invece riscontrabile la presenza di una Sostanza in grado di estendere la propria egemonia sul mondo. È precisamente questa libertà assoluta, l’assenza di qualsivoglia dominio, che caratterizza il Vuoto buddhista. Questa nozione di Vuoto percorre l’opera nella sua interezza. Byung-Chul Han non si riferisce chiaramente ad una negazione dell’essere, o ad un deserto privo di orizzonte, bensì nel parlare di Vuoto allude all’immanenza, priva di qualsiasi sottotesto o significato nascosto, che permea la vita quotidiana. L’immanenza può essere esperita solo entrando in questo spazio vacuo e, per fare ciò, l’uomo deve rinunciare al proprio sé. Bisogna dunque far sì che da una monade chiusa in sé stessa, l’uomo diventi una “finestra sul mondo” allo stesso tempo capace di far specchiare in sé l’Altro.
La relazione occupa nella filosofia di Han un posto privilegiato. In questo e in altri scritti l’autore mette però in guardia sulla deriva potenzialmente patologica di un uomo che si mette completamente a nudo, in uno sfrenato bisogno di mostrare il proprio sé. Esattamente la rinuncia al sé, ovvero la rinuncia al radicalizzarsi in un’immagine di sé stessi, permette all’individuo di prendere consapevolezza dell’immanenza.
Il filosofo ci presenta una corrente di pensiero priva di qualità eccezionali, che si fissa anzi in ciò che è comune, quotidiano. Pertanto, il sé non deve confondersi come ciò che risalta sullo sfondo dell’esistenza. Han sviluppa ulteriormente questo concetto di sfondo, riferendosi alle pitture dell’artista Yü-chien. Nelle Otto vedute di Hsiao-Hsing il tratto sfumato e fugace risulta nell’impercettibilità del distacco tra sfondo ed immagine. Montagne e fiumi vengono rappresentati in modo che sembrino quasi fondersi fino a trasfigurarsi gli uni negli altri. Ma, sottolinea Han, non si tratta di un mutamento della sostanza, quanto piuttosto di una espressione di libertà. L’autore riporta immediatamente il discorso sul versante antropologico: l’individuo, che non si cristallizza nell’immagine statica del sé, è veramente libero e in questa sua libertà si rispecchia nell’altro, che a sua volta ha vissuto il medesimo risveglio. Difatti, nell’abolizione del sé statico, si attua una de-individualizzazione, ma non una de-personificazione. L’Uomo mantiene la sua essenza, un suo senso peculiare, ma si rende capace di immergersi nel continuo divenire della vita.
Un perfetto esempio di questa immanenza del divenire è dato proprio dagli Haiku. La forma poetica presa in considerazione da Byung-Chul Han esprime la pura immediatezza, priva di sensi nascosti. Questa è la forma di relazione che l’autore auspica: un riconoscimento immediato dell’Altro come una Persona, a me distante solo nella misura in cui erroneamente decido di porre fra di noi un limite. È qui che torna a trattare del senso più profondo di Vuoto, inteso quindi come l’abolizione del confine soggetto-oggetto e perfino soggetto-soggetto. Dunque, la vacuità «impedisce soltanto che la singola cosa si irrigidisca in sé stessa» (p. 57). Essa, nella sua libertà, porta inoltre con sé quella che l’autore definisce un Gentilezza Amichevole. Il concetto, trattato nell’ultimo capitolo del saggio, rivela come la spontanea apertura al quotidiano, nonché l’accettazione dell’Altro come parte di ciò, possano essere letti come una forma di «apertura all’ospitalità» (p. 133). Ancora una volta, dunque, viene ribadita la totale assenza di delimitazioni nel Vuoto.
Attraverso la de-individualizzazione, Han ci accompagna nel non-luogo. Questo concetto chiave del buddhismo zen può dare l’idea di una pura astrazione priva di valore, ma la sua comprensione risulta in realtà una diretta conseguenza logica di quanto già detto. Nel momento in cui si concepisce l’individuo come immerso nell’immanenza in divenire della vita, non si può dire che egli risieda davvero in qualche luogo. Dunque, l’attaccamento ad un luogo è assunto come metafora del vivere delimitando la vita.
Questa filosofia della vita, che concepisce il divenire come attributo sostanziale della stessa, concede inoltre una visione peculiare della morte. Byung-Chul Han dialoga in particolare con Heidegger proprio riguardo il senso della Fine. L’essere-per-la-morte afferma con estrema potenza l’eroismo dell’individuo, che proprio in quanto sente la morte come sua, si «risveglia [in lui] un enfatico Io Sono» (p. 122). Nel pensiero buddhista, la morte non lascia spazio ad alcuna forma di eroismo, ma soprattutto, non porta con sé alcuna forma di trascendenza, «Non si va altrove. Piuttosto ci si immerge nella fugacità» (p.127). In questo senso, essa rappresenta la massima espressione dell’immanenza, poiché nella morte ci si fissa inevitabilmente nella stessa fugacità. Si tratta, in un certo senso, dell’affermarsi del divenire stesso.
Ciò che nel complesso risalta all’interno dell’opera, è l’impegno da parte dell’autore di trascrivere un ordinamento di pensiero che per sua natura rifugge il linguaggio, senza però tradirlo o rischiare di ignorarne la profondità. A tale scopo, risulta efficace la scelta di Byung-Chul Han di facilitare la lettura con l’introduzione di brevi racconti zen o Haiku.
Federico TAVOLETTA