Intervista a Adrián BRAVI
Oltre ad essere un solerte e scrupoloso bibliotecario, che presta il suo servizio nella biblioteca di Filosofia del nosto Dipartimento, Adrian N. Bravi è anche un affermato scrittore argentino di lingua italiana. Il suo debutto in ambito letterario avviene nel 1999 con il libro in lingua spagnola Río Sauce, per poi iniziare a scrivere in italiano, lingua che adotterà per i suoi libri successivi, a partire da Restituiscimi il cappotto. Dopo aver ottenuto importanti consensi di critica con romanzi come La pelusa (Nottetempo, 2007), Sud 1982, (Nottetempo, 2008) Il riporto (Nottetempo, 2011) L'albero e la vacca (Feltrinelli, 2011), L’inondazione (Nottetempo, 2015), L’idioma di Casilda Moreira (Exòrma, 2019), Il levitatore (Quodlibet, 2020), Verde Eldorado (Nutrimenti, 2022), ai quali si affiancano racconti come Después de la línea del Ecuador (2015), Variazioni straniere (2015), e saggi come La gelosia delle lingue (EUM, 2017), Bravi è tra i 12 finalisti dell'edizione 2024 del Premio Styrega con il romanzo Adelaida (Nutrimenti, 2024).
Rallegrandoci con lui per questi meritati successi, lo abbiamo intervistato per la nostra newsletter, ringrazionadolo per la disponibilità a rispondere alle nostre domande.
D. Che vuol dire scrivere per te?
R. Credo che nell’atto della scrittura ci sia l’inconsapevolezza di quello che facciamo e del perché lo facciamo. Dunque, non saprei dire con precisione cosa voglia dire scrivere per me; posso dire, però, che, da un lato, lo ritengo un atto di conoscenza e dall’altro, una forma di stare al mondo e di interpretarlo. Si esce dall’orizzonte della pura razionalità per entrare in quello del racconto, dove la filosofia e la narrazione sono indissolubilmente intrecciate. C’è nella scrittura un gesto di autenticità, anche quando travisiamo la realtà o i fatti e ci appelliamo alla finzione per raccontare una storia che ci riguarda. Si scrive per non avere più volto, diceva Foucault, ma anche, aggiungo, per mettere insieme i vivi e i morti. La scrittura, come l’arte in generale “c’est la seule chose qui résiste à la mort”, diceva André Malraux.
D. Come e quando hai capito che era la tua strada?
R. Sono cresciuto in una casa in cui c’erano pochissimi libri e fino a quindici o sedici anni trascorrevo la maggior parte del tempo per strada. Ho avuto la fortuna, fin da piccolo, di passare alcuni pomeriggi in un cimitero di treni abbandonati, in un quartiere di nome Santos Lugares, a Buenos Aires, dove c’era un mondo sotterraneo, misterioso. Tra quei vagoni abbandonati c’erano barboni, vagabondi, gente che si nascondeva chissà da cosa. Era il luogo delle nostre scorribande. Sono quei luoghi che ti restano impressi e che poi, con il tempo finiscono per determinare il proprio immaginario, anche quando scrivi di tutt’altro. Poi, arriva un momento in cui senti il bisogno di cominciare a declinare la tua infanzia attraverso le storie. Posso dire che ho iniziato a scrivere sistematicamente dopo la laurea e dopo abbondanti letture. Come diceva Borges, mi vanto di più dei libri che ho letto che di quelli che ho scritto.
D. Come ti vengono le idee quando scrivi?
R. Quando scrivo non programmo mai lo svolgimento del testo. Parto da un’idea che sviluppo man mano che avanzo nella scrittura. Questo modus operandi mi dà un margine di libertà, nel senso che quando mi siedo alla scrivania non so che piega prenderà la storia. Tuttavia, le idee iniziali di ciascun libro sono nate in modo completamente diverso e a volte casuale: Il riporto, per esempio, è nato osservando il riporto elaboratissimo di un impiegato di banca (che succederebbe se un giorno glielo sposto con un gesto della mano? mi chiedevo ogni volta che mi trovavo davanti allo sportello), da lì è nato questo libro in cui si raccontato la storia di un riportato, se così posso chiamarlo. L’inondazione, invece, è nato pensando alle tante inondazioni che in passato si erano verificate in Argentina, allora ho provato a immaginare un anziano che resta da solo in un paese pieno d’acqua e percorre le strade con la barca, sotto l’acqua è rimasto il passato, la sua storia e quella degli abitanti, e sopra il presente. Da questa idea ho provato a sviluppare tutta la storia. Sud 1982, faccio l’ultimo esempio, è nato dal ricordo di quando facevo il militare, in quel periodo assurdo in cui l’Argentina era entrata in guerra contro gli inglesi per contendersi le isole Malvinas o Falkland, come le chiamano gli inglesi.
D. La storia “grande”, dei manuali e dei personaggi importanti, delle guerre e delle macerie, e le storie “piccole”, quotidiane, di fatiche, desideri, sogni: non è raro che i due piani si intersechino, anche nei tuoi lavori. Cosa si guadagna nel tenere insieme queste due “grandezze” della storia?
R. In questi giorni sto leggendo un libro di Carlo Greppi, uscito per l’editore Laterza, si intitola storie che non fanno la Storia, dove l’autore analizza il lavoro di molti storici che cercano di estrarre dal passato quelle vite che senza il loro lavoro di ricerca sarebbero rimaste dimenticate. Siamo figli del nostro tempo e sono le nostre urgenze a spingerci a riscattare o a riscoprire quelle vite che rischiano di precipitare chissà in quale Lete. Con il mio ultimo libro Adelaida ho cercato, per quando mi fosse possibile, di guardare la grande Storia attraverso una singola vita, perché lei, Adelaida, poteva incarnare molti aspetti che hanno caratterizzato il secolo scorso e non solo. È stata un’artista, un’intellettuale, ha vissuto in prima persona la tragedia della dittatura, l’esilio, la solitudine; insomma, attraverso la sua vita, determinata da alcuni eventi storici importanti, possiamo leggere la storia del secolo scorso e, ahinoi, anche l’attualità. Dunque, credo che le singole vite possano darci uno sguardo complessivo di un periodo e di un luogo, specie se hanno incarnato quel periodo e quel luogo. Sono i singoli dettagli di quelle vite silenziose che spesso ci fanno capire meglio il senso e le vicende della grande Storia.
D. Viaggi, ritorni, terre lontane, ospitalità linguistica: quanto conta questa dimensione per te, sia biograficamente che narrativamente?
R. Sono giustamente questi che hai elencato alcuni degli aspetti che mi sollecitano a confrontarmi con le storie che racconto. Mi interessa la ricerca di un altrove che spesso viene visto attraverso la lingua: uno studioso di etnolinguistica che vuole intervistare gli ultimi due parlanti di una lingua, ma loro hanno smesso, per una vecchia questione d’amore, di rivolgersi la parola (L’idioma di Casilda Moreira); un cronista di bordo, con il volto sfigurato da un incendio, rapito da una tribù di cannibali di cui non riesce a decifrare nulla di quello che gli dicono (Verde Eldorado). All’aspetto narrativo si aggiunge quello biografico, nel senso che parlo e vivo in una lingua che ho imparato tardi, quando avevo ventiquattro anni e che ora, dopo tanto tempo trascorso in Italia, è diventata una sorta di seconda lingua madre. A questo tema ho dedicato un libro, La gelosia delle lingue, pubblicato dall’EUM, la casa editrice dell’università. Che cosa accade in un autore, mi chiedo nel libro, quando decide di abbandonare la sua lingua per scrivere in una diversa dalla propria? Che cosa si perde in questo passaggio e che cosa si acquista? E poi, perché si lascia una lingua per adottarne un’altra? Ecco, queste sono alcune delle domande sulle quali mi interrogo nel libro e che, indirettamente, ho provato a sviluppare narrativamente in altri. In Adelaida, per fare un esempio, mi chiedo perché lei a volte sentiva l’esigenza di parlare in un’altra lingua rispetto a quella che usavamo abitualmente.
D. Hai partecipato a diversi premi letterari e ne hai anche vinti. Recentemente hai concorso per il premio Strega: quali sono stati i momenti più belli e intensi di quell’esperienza?
R. Non avrei mai immaginato di poter partecipare al premio Strega, ma l’editore, appena ha letto l’ultimo libro che gli ho recapitato, Adelaida, ci ha creduto fin dall’inizio. E devo dire che la sua fiducia mi ha dato tanta gioia. Molti dicono che il modello del mercato abbia pervaso la scena culturale italiana, nel senso che il valore letterario di un libro spesso è determinato dal numero di copie che vende e che molti premi si adeguano di conseguenza, ma io non so se è così, anzi, ne dubito. Il mio libro quando è stato scelto al premio Strega era uscito da poco e aveva venduto solo una manciata di copie. Quindi, mi viene da pensare che è stato selezionato per la qualità letteraria e non certo per le copie vendute. Dopo lo Strega ho partecipato ad altri premi: il Premio Basilicata, per esempio, che ho vinto, o il Premio Giovanni Comisso, che ho vinto dopo aver partecipato in passato altre due volte in anni diversi. Alcuni parlano male dei premi, a me hanno aiutato a ristrutturate il bagno dello studio, dove ho i miei libri e dove vado a scrivere e a leggere.
D. Hai un romanzo preferito? Un film?
R. Il mio romanzo preferito, dai tempi della scuola, resta Il Don Chisciotte (El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha). Credo che sia uno dei pochi libri che può essere interrogato ancora da tanti punti di vista, soprattutto filosofico. È stato un testo precursore nella storia della letteratura e a ogni lettura ci apre sempre nuovi orizzonti. Don Chisciotte decide in modo perentorio di farsi cavaliere andante, dunque, un altro da sé, ma per fare questo smette di essere quello che era, Alonso Quijano. Già questo ci apre mille interrogativi.
Riguardo i film, sarebbero tanti quelli che mi piacerebbe scegliere, a cominciare da I ladri di bicicletta per arrivare ad Amarcord, un film che ho sempre amato, ma preferisco avvicinarmi ai nostri tempi e ricordare un film francese del 1991, di Patrice Leconte, Il marito della parrucchiera (Le Mari de la coiffeuse), un’opera bella e intensa, con un’Anna Galiena straordinaria e un singolarissimo Jean Rochefort. Si tratta di una storia d’amore sui generis, fatta da pochi dialoghi e tanti ricordi. Il film si svolge quasi tutto all’interno di un salone di parrucchiere. È un film triste e, allo stesso tempo leggero e ironico. Lo so, è un ossimoro definirlo in questo modo, ma è proprio così.
D. Lo studio della filosofia a Macerata: condivideresti qualche ricordo con i lettori e le lettrici?
R. Le prime lezioni che ho frequentato (ero arrivato in Italia da tre mesi), tra settembre e ottobre 1987, si svolgevano in via Cresciembeni, ma da lì a poco, a novembre di quell’anno, tutta l’attività didattica è stata trasferita nell’attuale palazzo in via Garibaldi.[1] Qui, nell’antico Monastero di Santa Chiara ho frequentato le lezioni del professor Mario Casula, Francesco Moiso, Giovanni Ferretti, Francesco Voltaggio, Andrea Poma, Francesco Totaro, Ruggero Morresi, János Petöfi, Giorgio Agamben, ma soprattutto quelle del professor Filippo Mignini, che allora insegnava filosofia medievale e storia della filosofia. Devo confessare che le lezioni del professor Mignini, con cui anni dopo ho fatto la tesi di laurea, hanno costituito una svolta nella mia vita. Ero arrivato da pochi mesi in Italia e senza lo stimolo dello studio della filosofia non so se sarei rimasto. Ricordo che in quel periodo, era l’anno accademico 1987/1988, il professor Mignini faceva un corso sull’interpretazione di Alberto Magno al terzo libro del De anima di Aristotele. Eravamo in pochi studenti a frequentare le sue lezioni, spesso le faceva nel suo studio. I commenti e le disquisizioni, che spesso non capivo del tutto, erano diventati il mio universo. In quel periodo, per mantenermi, lavoravo come cameriere e la notte andavo a dormire tardissimo. Qualche volta sono andato a lezione dopo aver dormito appena due o tre ore. Non ne saltavo una. Ripeto, anche se non mi erano del tutto chiari i commenti di Averroè o di Avicenna da parte di Alberto Magno, io trovavo qualcosa di magico in tutto quello. Bisogna aggiungere, inoltre, la difficoltà del latino e anche quella dell’italiano. Negli anni successivi ho continuato a frequentare le lezioni del professor Mignini, quelle su Sigieri da Brabante, su Giordano Bruno e su Spinoza. Se potessi riavvolgere il nastro del tempo tornerei ancora ad ascoltare quelle lezioni.
D. Ti è servito studiare filosofia?
R. Lo studio della filosofia mi è servito moltissimo, non saprei bene specificare a cosa, ma non riuscirei a immaginare la mia vita senza lo studio della filosofia, che avevo già iniziato quanto abitavo a Buenos Aires. Ma voglio ricordare un particolare che si aggancia alla domanda precedente. Un giorno il professor Mignini aveva deciso di dedicarlo alla ricerca bibliografica e ci aveva mostrato, a me e ad altri pochi studenti, come consultare un catalogo (non esisteva ancora l’opac) e alcuni repertori come, per esempio, il Repertoire bibliographique de la philosophie, il Louvain. Conoscere quegli strumenti è stato importantissimo. Sapere come reperire un testo o un’informazione è la base di ogni studio. Non è un caso se oggi faccio il bibliotecario e mi occupo anche di ricerca bibliografica.
D. Qual era il tuo filosofo preferito tra quelli che studiavi?
R. Avrei voluto studiarlo meglio, ma allora come adesso il mio filosofo preferito resta Spinoza che, come scriveva Borges in uno dei suoi poemi dedicati al filosofo olandese, costruisce Dio nella penombra.
[1] Per chi volesse approfondire la storia della Facoltà di Filosofia dal 1964 in poi, consiglio questo testo del professor Mario Casula che si può leggere online: https://www.accademiasarda.it/casula-mario/