Naṣr Ḥāmid Abū Zayd: una lettura critica del Corano
bū Zayd (1943-2010) è l’intellettuale egiziano che con l’elaborazione del suo metodo critico si oppone alle ingiunzioni e alle chiusure della tradizione islamica ortodossa. Il testo sacro non dovrebbe costituire lo scenario della lotta politica e sociale condotta con le armi della teologia. In queste righe cercherò di presentare la sua interpretazione critica del Corano a causa della quale vide intentato contro di sé un processo per apostasia (ridda), tanto da essere accostato, dalla stampa egiziana, a pensatori quali Averroè e Galileo Galilei.
Nell’analisi interpretativa dell’islamismo radicale prevale la tendenza a ritenere che il testo sacro veicoli un senso univoco, Abū Zayd è invece fra quei commentatori contemporanei che hanno evidenziato la necessità di un approccio storicistico che contestualizzi e pluralizzi il significato del testo. L’ermeneutica (termine impiegato per tradurre l’arabo “ta’wīl”) applicata da Abū Zayd rielabora il concetto di testo e ne rileva la sua storicizzazione.
Bisogna chiarire di che tipo di testo si tratti, quali siano le sue caratteristiche, le sue particolarità, le sue strutture linguistiche e quali siano i destinatari. Il Corano è analizzato nei suoi tre aspetti fondamentali: il contenuto, la lingua e la struttura. Sottolineando il fatto che solo l’origine del testo sacro può essere considerata realmente divina e come, nonostante ciò, sia il frutto di un contesto storico e politico ben preciso: esso è un prodotto della cultura araba del VII secolo.
Il Corano è la parola di Dio rivelata dal profeta Muhammad in lingua araba nell’arco di ventitré anni, tale è la definizione generalmente accettata dai musulmani. In questa formulazione ritroviamo tre concetti cardine: la rivelazione (Wahy), la parola di Dio (Kalām Allah) e il Corano (Qur’an). Essi non sono sinonimi, anche se così sembrerebbe dal discorso islamico moderno. Già la teologia classica manifesta una certa consapevolezza della loro diversità lessicale e semantica, rintracciabile nello stesso Corano. Per questo, spiega Zayd, il Corano non esaurisce la parola di Dio e la rivelazione (N.H.A. Zayd, The Qur’an: God and Man in Communication, p. 2).
L’etimologia del concetto di wahy rimanda ad una sorta di “comunicazione misteriosa non verbale” e con esso ci si riferisce al canale attraverso cui la parola di Dio è rivelata agli uomini: Dio, l’arcangelo come mediatore ed il Profeta in quanto recettore della rivelazione. Il messaggio (risāla) esprime un contenuto (essenzialmente identico allo stesso annuncio presentato dai profeti precedenti) attraverso un’espressione linguistica ben definita: la lingua araba. Egli affronta il problema della rivelazione come comunicazione in una lingua umana. Dio considererebbe sempre il linguaggio delle persone destinatarie dell’annuncio: se Muhammad avesse ricevuto la rivelazione in un’altra lingua gli arabi non l’avrebbero compresa e non si sarebbero convertiti. Né una rivelazione in lingua araba sarebbe potuta discendere su profeti come Mosè o Gesù per lo stesso motivo. La conclusione è che il Corano non è che una fra le diverse modalità espressive di Dio, non è la sua parola, ma una delle sue possibili parole e l’arabo non è la sua lingua, ma una delle lingue attraverso cui i profeti si espressero.
Il Corano non è analizzato in quanto testo singolo e compiuto. Le sue diverse parti sono state rivelate nel corso di quasi ventitré anni. Si tratta di molti testi e non di un testo soltanto e la sequenza dei testi non corrisponde all’ordine cronologico della rivelazione. Per tale motivo anche i giuristi musulmani, per poter definire le disposizioni posteriori che abrogarono quelle precedenti, dovrebbero conoscere il disegno e le ragioni dell’ordine delle sure e dei versetti.
Non è possibile comprendere e valutare il dogma al di fuori della storia della ricezione del Corano e della comunità che ha prodotto il dogma. Gli studiosi dovranno approfondire la realtà contestuale, ossia le condizioni sociopolitiche in cui si trovarono i destinatari del Corano, compreso Muhammad, che determinò la vita, i pensieri e le azioni degli stessi. Questo tipo di studio dovrebbe essere approfondito prima di estrapolare un qualsiasi significato dal testo sacro: solo così il discorso religioso potrà essere d’aiuto nella società moderna. «Tale interpretazione matura, spiritualizzata e contestualizzata del Corano prenderà il posto della visione monolitica e astorica dei fondamentalisti ed il pluralismo e la tolleranza diventeranno il discorso dominante all’interno delle società musulmane» (p.71). Fondamentale è dunque una distinzione fra la storicità del Corano e la Parola di Dio nella sua forma assoluta.
Come comprendere un testo scritto più di 1300 anni fa? La soluzione risiede unicamente nel messaggio stesso. Il Corano può essere analizzato in modo scientifico solo nella sua dimensione scritta, non in base alle caratteristiche o alle intenzioni del suo autore. Esso è un testo divino dal punto di vista dell’autore e del contenuto. Visto che il contenuto è lo scopo dell’interpretazione, il Corano può essere studiato e compreso sono nella sua dimensione umana testuale. La dimensione umana riguarda la lingua e il destinatario del messaggio divino, un popolo in un momento storico con caratteristiche ben determinate, a livello linguistico e culturale.
Già dai tempi della rivelazione c’è una sorta di umanizzazione della parola divina, un dialogo e una comunicazione continua fra le due parti (l’uomo e Dio). L’arabo del Corano non è, come classicamente si pensava, la variante più pura della lingua usata dai poeti. Alcuni studi hanno infatti distinto in esso tre gruppi dialettali gerarchizzati: dialetti occidentali (identificati con la parlata dei Banu Qurays), dialetti orientali (identificati con i Banu Tamim) e dialetti meridionali (dialetto yemenita). A fianco di questi dialetti sarebbe esistita una lingua franca utilizzata dai poeti e la lingua del Corano sarebbe il risultato di questa koinè formata da elementi della lingua poetica, dei dialetti e dal confronto con i testi delle comunità ebraiche e cristiane (R. Barbini, Il Corano nel pensiero di Nasr Hamid Abū Zayd . Un modello semiologico, p.58).
La stessa influenza è riscontrabile nei contenuti e nella forma del Corano: «Le sue figure retoriche, le sue immagini poetiche e i suoi racconti dovevano penetrare nel profondo dell’animo degli arabi per convertirli alla nuova religione» (p. 59). Uno degli effetti del Corano fu infatti quello di suscitare timore e di affascinare gli ascoltatori del profeta: l’esito estetico dunque è inseparabile dalla dimensione religiosa.
Occorre prendere in esame la modalità con cui il Corano è stato strutturato, in cui è stato trasmesso, diffuso e codificato fino alla sua canonizzazione. Tali “manovre umane” non si limitano all’applicazione dei punti diacritici e delle vocali aggiunte all’originale e illeggibile testo othmaniano, ma si rintracciano anche nell’ordine in versi e in capitoli (tartib al-tilawa, l’ordine di recitazione) che non corrisponde all’ordine cronologico (tartib al-nuzul) ( p. 5).
In virtù della sua complessa struttura e della qualità dei segni, il Corano può produrre innumerevoli livelli di significato come si può notare dalla storia delle sue interpretazioni, esoteriche, letterali e giurisprudenziali. Abū Zayd cita Averroè il quale individuò tre livelli di significato del Corano: la prima e la più semplice è la forma esteriore poetica (khatabi), fatta per parlare alle masse; la seconda è la forma argomentativa (jadali), destinata ai teologi; la terza e la più fine è la forma filosofica (burhani), che è stata ideata [da Dio] per i filosofi (p. 65). Anche Abū Zayd individua tre livelli di significato che caratterizzano il suo paradigma interpretativo: i valori di testimonianza (i quali non sono oggetto di interpretazione), i valori metaforici (i versetti che possono essere letti solo come metafore dell’unicità e della potenza divina) e i valori che si ottengono estendendo le finalità originarie (i quali si comprendono alla luce del contesto socio-culturale).
Il primo livello è relativo a elementi ormai anacronistici ed direttamente dipendente dalla storia del VII secolo. Questo tipo di versetti non ha nessun valore se non quello poetico. Metaforici sono invece tutti quei versetti che implicherebbero l’idea di un Dio antropomorfo. E infine sono in relazione alle finalità originarie quelle regole di comportamento ingiunte alla prima società destinataria del messaggio coranico.
In relazione a tale tecnica esegetica vengono ridiscusse le questioni relative al diritto penale e a quella femminile. Per dare senso alla manifestazione della Parola di Dio relativa alle pene specifiche per determinati reati - ad esempio la legge del taglione, l’occhio per occhio, la lapidazione per adulterio, l’amputazione della mano per chi ruba e la morte per chi cambia religione – essa deve essere considerata all’interno delle realtà del suo tempo. I hudūd, i versetti riguardanti le punizioni, non rispecchiano comandamenti divini validi eternamente. «Il Corano adotta determinati tipi di punizione in vigore all’interno delle culture preislamiche per risultare credibile nella civiltà del tempo» (N.H.A. Zayd, Testo sacro e libertà. Per una lettura critica del Corano, pp. 34-35). Il Corano ha assunto una particolare forma affinché gli abitanti dell’Arabia del VII secolo potessero comprenderlo. Elevare gli aspetto storici del Corano a un rango divino significherebbe violare la Parola di Dio, ossia distorcerla. Per questo, conclude Zayd, la società contemporanea ha tutto il diritto di punire i reati in modo più umano ed i giuristi non dovrebbero irrigidire la parola di Dio, ma dovrebbero impiegare il loro pensiero critico per costruire una società giusta.
Per quanto riguarda la la questione femminile il Corano asserisce l’unità e l’uguaglianza degli esseri umani. «All’inizio c’era una sola anima, Dio l’ha divisa in due e da queste ha avuto origine l’intera razza umana» (p.42). La parola di Dio pone continuamente l’accento sull’uguaglianza tra donne e uomini. La superiorità riconosciuta nel Corano all’uomo rispetto la donna - in relazione al sostegno economico, alle percosse nei confronti delle mogli e all’eredità – è connessa al contributo prettamente maschile alle spese di sussistenza e non ha nulla a che vedere con il valore umano. La “superiorità” dovrebbe essere intesa come “responsabilità” direttamente proporzionale al proprio contributo economico all’interno del nucleo familiare.
La proposta avanzata da Abū Zayd è quella di lasciare da parte l’assolutizzazione della “lettera” del testo sacro e di recuperare quella dinamica interna al Corano, perché è questa che ha inciso sulla vita dei credenti.
La finalità del Corano è strettamente connessa alla questione della giustizia. Ogni racconto è finalizzato all’affermazione delle giustizia nella società. Esso ha preso forma all’interno della società meccana, una società molto ingiusta che vedeva il sopruso degli abitanti della Mecca nei confronti di poveri che non riuscendo a pagare i debiti si rivolgevano ad usurai. In tale luce si dovrebbe comprende l’importanza rivestita dalle figure degli orfani, dei poveri e dei più deboli. Quale che sia il tema affrontato dal Corano - l’universo, la natura, Dio e le sue opere, la vita sociale o quella ultraterrena - il nodo centrale è la giustizia.
Come essere oggi un buon musulmano? In primo luogo bisognerebbe distinguere il “senso” contestuale originale, immutabile in virtù della sua storicità, e il suo “significato”, destinato a variare nel tempo in base al contesto socioculturale.
Il processo di riforma del pensiero islamico dovrebbe passare attraverso l’analisi del testo coranico e il tentativo di operare una distinzione fra gli elementi storici e la Parola di Dio. Emerge la necessità di un metodo per poter parlare della religione. Il discorso religioso è un discorso umano. Esso non coincide con la predicazione o con la propaganda sacra. Tale metodologia implicherebbe l’analisi socio-storica della realtà e della cultura ed il ricorso alla moderna metodologia linguistica. A tale proposito dobbiamo ricordare che fondamentali sono stati gli studi di Zayd relativi alla linguistica, all’antropologia culturale, alla semiotica e all’ermeneutica filosofica).
Il discorso aperto ad un confronto e ad una rielaborazione continua è per sua natura critico. Zayd afferma la necessità di un discorso religioso in cui i cittadini siano in grado di pensare in modo critico e di esprimersi liberamente. È questa l’idea che autenticamente giunge dal Corano: l’impegno della coscienza individuale nella ricerca della libertà e della giustizia, ossia la messa in discussione delle consuetudini del passato (la ǧāhiliyya, il codice di comportamento tribale preislamico i cui criteri di giustizia si basavano sui legami di sangue). La ǧāhiliyya doveva essere sostituita dalla comprensione razionale umana. Tale lettura del Corano implica uno spostamento della ricerca dalla dimensione verticale (profeta-Dio) alla dimensione orizzontale, in cui gli interlocutori sono sullo stesso piano della comunicazione e del dialogo. Riportare alla luce il messaggio universale di giustizia, che fa da sfondo a tutto il Corano, intrinseco al processo di comunicazione.
L’idea che i testi religiosi, anche se divini e rivelati, siano un prodotto culturale e storico è condannata come “apostasia” poiché l’idea del Corano come parola eterna, riferita alla lettera, è diventata il dogma dell’Islam sunnita. Non ci sarebbero atti di reinterpretazione, solo i teologi avrebbero il diritto al primato nella sua conservazione, ed il messaggio coranico sarebbe ridotto ad oggetto di manipolazioni politiche e dogmatiche. Un’analisi storico-critica del Corano, degli hadith e della shari’a può rivelare l’origine umana di alcune interpretazioni e dunque la loro inadeguatezza in un contesto moderno. Cio permetterebbe una separazione della sfera religiosa da quella politica, evitando gli eccessi della secolarizzazione, da una parte, e l’indottrinamento e l’islamizzazione di tutte le sfere della vita, dall’altra. Tale approccio rende il Corano accessibile e interpretabile in un’ottica umanista ed evidenzia come i diritti umani non siano in contrasto con i valori islamici presenti nel Corano. Anzi, mostra come questo testo racchiude in sé un criterio umano e universale di giustizia continuamente adattabile ai vari contesti storici della vita umana.
Riferimenti bibliografici
N.H.A. Zayd, Testo sacro e libertà: per una lettura critica del Corano, introduzione di Nina zu Fürstenberg, a cura di Federica Fedeli, Marsilio, Venezia, 2012.
Id., The Qur’an: God and Man in Communication, Rijksuniversiteit te Leiden, Universiteit, 2000.
Id., Una vita con l’Islam (a cura di N. Kermani), il Mulino, Bologna, 2004.
Rocco Barbini, Il Corano nel pensiero di Nasr Hamid Abū Zayd . Un modello semiologico, tesi di laurea, 2009
SARA BARCHIESI