Home Libri / Intersezioni LA NATURA TRA TECNICA E ARTE

LA NATURA TRA TECNICA E ARTE

Cosa intendiamo, oggi, coi termini natura e naturale? Si tratta di nozioni ormai vuote e cristallizzate o, al contrario, ancora dotate di un senso da ricercare, incontrare, esplicitare? In che misura l’uomo, in quanto essere storico, può comprendere ed esperire la natura come condizione preliminare della sua esistenza? Come leggere la relazione tra natura e scienza, natura e tecnica, natura e arte? A queste domande tentano di rispondere, attraverso approcci e secondo registri differenti, gli autori dei due testi che considereremo: Cos’è il naturale, che racchiude le lezioni tenute dal filosofo e teologo tedesco Robert Spaemann presso la Scuola di Alta Formazione Filosofica di Torino, e Abitare la terra, saggio del filosofo spagnolo Félix Duque.

Spaemann parte da una prospettiva etico-antropologica che mette al centro l’idea di persona (l’altro grande tema, insieme a quello della natura, attorno al quale ruotano le sue lezioni) e si confronta in maniera critica sia col pensiero moderno che con l’evoluzionismo; Duque prende invece le mosse dalla fenomenologia dell’abitare del “secondo” Heidegger e la fa dialogare con l’arte contemporanea, in particolare con l’architettura di Mies van der Rohe. Nonostante il quadro teorico e gli autori di riferimento differiscano, le due riflessioni convergono su una serie di questioni fondamentali: innanzitutto, la necessità di una concezione contemporaneamente unitaria e plurale dell’uomo e della natura e, di conseguenza, l’impossibilità di considerare in termini dualistici il loro rapporto. Il riconoscimento della naturalità come dimensione originaria dell’uomo in quanto organismo biologico e corporeo va di pari passo con la scoperta della sua capacità di trascendimento della natura (in questo senso, Spaemann afferma che la persona non è, ma ha una natura: pur non identificandosi mai col factum brutum della sua naturalità, egli non può eliminarlo, espellerlo o essergli indifferente).

In esplicita polemica col pensiero moderno e l’evoluzionismo, Spaemann sostiene il ritorno ad una concezione teleologica della natura e della vita (il modello è qui la phýsis aristotelica) e dunque pensa la natura in analogia con la vita umana in quanto totalità orientata. In Duque, vi è piuttosto un’idea di natura come fondo inumano ed impenetrabile sul quale si costituisce lo spazio dell’abitare umano (Lebensraum); di qui la critica del neo-umanismo e dell’immagine della natura veicolata dalle arti visive. Al di là delle differenze, entrambi gli autori giungono a formulare negli stessi termini sia la critica all’approccio dominativo della tecno-scienza sia l’idea di un auto-trascendimento di questa nell’arte. Proprio la questione del rapporto tra natura e arte, insieme all’idea di filosofia come pensiero rammemorante, “comprensivo” e salvifico, rappresentano i temi attorno ai quali il testo di Spaemann e quello di Duque si intrecciano più strettamente.

Così come non esiste un io puro, una coscienza esterna al mondo ed estranea alla natura, allo stesso modo non vi è per noi una natura pura, concepibile al di fuori della condizione storica a partire dalla quale la comprendiamo. In questo senso, Duque mostra la schizofrenia che caratterizza le opere contemporanee di arte visiva, che veicolano la paradossale concezione di una natura come massa disponibile e manipolabile e, contemporaneamente, come origine perduta, dimensione primitiva e paradisiaca nostalgicamente rievocata: a livello urbanistico, per esempio, questa «nostalgia reazionaria pre-tecnica» (Duque, p. 112) emerge nella creazione di spazi delimitati all’interno della città, come giardini e parchi, che riproducono artificiosamente una natura incontaminata. Ciò che tanto Spaemann quanto Duque mettono in luce è che noi non comprendiamo la natura a prescindere dall’intervento tecnico e urbano-architettonico che vi operiamo ma contemporaneamente ad esso, cosicché la natura è già sempre l’elemento “esiliato”, sublimato, trasceso in e da questo stesso intervento. Ciò significa anche che il legame naturale con la terra è esperito all’interno del tempo storico e delle molteplici forme della cultura: paradossalmente, la trasformazione creativa della natura non è possibile se non previa comprensione del dato naturale in un orizzonte di senso, quindi in un orizzonte storico e culturale (Spaemann, p. 23).

Quello di natura, dice Spaemann, è un concetto essenzialmente dialettico, non solo perché generalmente implica e contiene un contro-concetto (tecnica, cultura, norma, ragione, grazia ecc.), ma anche perché rappresenta per l’uomo una dimora e un ostacolo allo stesso tempo: per questo, la conditio humana è caratterizzata dalla tensione tra l’inclinazione al dominio (il cui strumento è la scienza come mera conoscenza dei nessi funzionali, senza interesse per l’origine e il télos) e quella alla comprensione e alla relazione (propria, al contrario, della filosofia). Parallelamente, Duque afferma che, nonostante l’appartenenza dell’uomo al suo fondo tellurico (il termine homo deriva da humus), la natura è sempre indice di un’estraneità, di una dimensione dalla quale siamo già separati ab initio in quanto esseri di ragione; e tuttavia il termine “cultura” deriva dal latino colere, coltivare la terra, ossia umanizzare e non annullare la natura – Heidegger dirà che abitare è costruire, «un costruire che coltiva e coltiva ciò che cresce». Attraverso l’azione (tecnica) e il pensiero, l’uomo trascende il suo naturale e corporeo radicamento terrestre, erigendo un orizzonte di senso che permette di incontrare l’ente: al di là di ogni demonizzazione, infatti, la tecnica è il modo in cui l’uomo interagisce con l’ordine naturale e, a partire da questo, costruisce quello umano; in questo senso, la tecnica è «antropogena e fisiogonica» (Duque, p. 40).

Il costruire come forma dell’abitare per Duque e la costituzione di un contesto sociale di persone per Spaemann rappresentano il medium tra naturale e artificiale; il pericolo in questa costruzione di compagini umane, tuttavia, è che l’uomo trasformi il limite mobile frapposto tra sé e la natura in «cornice di dominio»: è ciò che, secondo il filosofo spagnolo, accade oggi nel passaggio dalla tecnica alla tecnologia, la quale si auto-orienta e auto-dirige. In entrambi i testi, come accennato, è presente un’aspra critica alla scienza e alla tecnica nella misura in cui esse si concepiscono come identiche o sostitute della natura. Duque parla di una tecno-natura, cioè di uno stadio in cui la tecnica riproduce l’estraneità stessa della natura, il suo carattere in-umano e preistorico; inoltre, e su questo punto Spaemann si esprime esattamente allo stesso modo, se si considerano i suoi effetti, la tecnica sembra essersi sostituita alla natura poiché, al di là della sua manipolabilità superficiale, la sua esistenza, l’inafferrabilità del suo senso e del suo fine ne fanno un «processo impersonale che ha il carattere di un destino che si sottrae a qualsiasi tentativo di comprensione» (Spaemann, p. 107), scatenando sentimenti di timore reverenziale o di fervore religioso anticamente riservati alla natura o alla divinità. La perdita del senso del télos nella concezione della natura come in quella della vita implica la trasformazione di scienza e tecnica da prodotti o modi di essere umani in orizzonti ultimi di senso, all’interno dei quali l’uomo si riduce ad un momento.

Come reagire a questa tendenza della tecno-scienza, che disumanizza e fa cadere il mondo nell’insensatezza? Entrambi gli autori parlano a questo proposito di “rammemorazione”, altro termine chiave delle due trattazioni, che sta ad indicare una modalità di comprensione del mondo che tiene conto del limite (limite mobile, Grenze, e non barriera, Shranke) rappresentato dalla natura: «solo lì dove la natura viene rammemorata – scrive Spaemann – si può veramente divenire liberi; dove si dimentica la natura si diviene schiavi» (Spaemann p. 55). È necessario, dunque, passare da un pensiero puramente rappresentativo e fondante ad un pensiero rammemorante; questo intende anche Heidegger quando parla di pre-comprensione come progetto rivolto a ciò che sta dietro e prima.

Soltanto l’arte come riconoscimento di una resistenza insita nella natura può impedire che la tecnica si identifichi con essa. Riferendosi rispettivamente ad Aristotele e a Goethe, sia Spaemann che Duque interpretano la creazione artistica come mimesi della capacità generatrice della natura (natura naturans). Di qui, la critica di Spaemann alla scienza come simulazione che si vuole identica al simulato, e quella di Duque al moderno design, anch’esso caratterizzato dall’utopia di una ricostruzione integrale della natura naturata. Solo l’arte come custodia della chiusura della terra, della sua indisponibilità ed impenetrabilità, permette l’auto-trascendimento della tecnica: il producere, la tekne, sarebbe allora un portare qualcosa alla presenza – una pro-ductio ab esse – a partire dal fondo ritratto dell’essere. Per concludere, dunque, entrambi gli autori individuano nell’arte – in un’arte che trascende la tecnica come mero strumento di dominio ed è essa stessa rappresentazione della trascendenza – la salvezza della natura e dell’uomo stesso, poiché per l’artista la relazione all’oggetto e la sua umanizzazione si fondano sul fatto che entrambi (artista e oggetto) si trovano radicati alla terra e appartengono alla comunità cosmica: «l’artista è uomo, egli stesso natura e un pezzo di natura nello spazio della natura, creatura sulla terra e creatura del tutto» (Paul Klee). Rimane aperta la questione di che cosa imiti l’arte contemporanea, una volta che si è persa l’idea di un télos immanente alla natura e che la sua capacità creatrice è divenuta meccanismo guidato da necessità (l’ananke aristotelica) o mero processo.

 

I LIBRI

F. DUQUE, Abitare la terra. Ambiente, Umanismo, Città, Moretti e Vitali Editori, Bergamo 2007.

R. SPAEMANN, Cos’è il naturale. Natura, persona, agire morale, Rosenberg e Sellier, Torino 2012.

 

CHIARA PESARESI

inAteneo

InATENEO